Colin Campbell Cooper, "The Rush Hour, New York City", circa 1900

Altro che povertà, la globalizzazione ha reso il mondo un posto migliore

Luciano Pellicani

L’enorme influenza civilizzatrice del capitale

Nei primi anni Settanta, sulle pagine del quotidiano più diffuso e autorevole  del nostro paese – il Corriere della Sera diretto dal sedicente liberale Piero Ottone – Pier Paolo Pasolini aveva ossessivamente reiterato che “la continuità fra fascismo fascista e fascismo democristiano era completa e assoluta” e che il sistema capitalistico era “il più repressivo totalitarismo che ci fosse mai stato” a motivo del fatto che “il potere coatto dei consumi ricreava e deformava la coscienza del popolo italiano fino a una irreversibile  degradazione”. Così, mentre la rivoluzione capitalistica –  grazie al prodigioso incremento della produttività del lavoro e alla conseguente lievitazione della ricchezza nazionale – faceva uscire milioni di lavoratori dal pantano della miseria più atroce, Pasolini la stigmatizzava come una perversa potenza il cui fine era “la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”. Donde l’inappellabile sentenza finale, secondo la quale “la società dei consumi aveva realizzato il fascismo”. Solo una parte della società italiana non si era fatta contaminare dalla “corruzione borghese”: il Partito comunista, il quale era “un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumista”.

 

Quando Pasolini dava il suo contributo alla diffusione della visione demonizzante della società dei consumi e alla  celebrazione del culto idolatrico del Partito comunista quale oasi di incontaminata purezza spirituale, sulla scena internazionale c’era la presenza dell’Unione sovietica, esaltata come la prova storica che esisteva un’alternativa al sistema capitalistico. Naturalmente, dopo la bancarotta planetaria del comunismo marxleninista, i guru dell’antimodernità si guardano bene dallo sventolare le rosse bandiere della Terza Internazionale; ma l’idea di fondo resta la stessa. E’ l’idea – già presente in Rousseau – secondo cui la scienza, la tecnica e il mercato – nonché i prodotti ideologici del processo di modernizzazione, tutti irrimediabilmente corrotti da quella che Marx chiamava “l’infezione borghese” – hanno generato uomini spiritualmente rovinati.

Una conferma di ciò è il recente articolo di Donatella Di Cesare pubblicato dal Corriere della Sera, nel quale si condannano gli “effetti devastanti” del “consumismo narcotizzante”, della “idolatria del pil” e della “ideologia del confort”. E si condanna altresì  la globalizzazione, la quale “non è stata per nulla un processo inclusivo” poiché ha creato “un sistema del confort a cui ha accesso un quarto dell’umanità e che a tutti gli altri è precluso”.

 

Ma la realtà è completamente diversa da quella immaginata da Donatella Di Cesare. Da tutti i dati a nostra disposizione, risulta che i popoli del Terzo mondo oggi si nutrono meglio che nei secoli  precedenti. Ciò accade grazie alla “rivoluzione verde” che, triplicando la produzione di cereali, ha reso possibile l’aumento dell’apporto calorico pro capite del 38 per cento. Così la percentuale degli affamati è diminuita dal 35 per cento al 18, talché oggi oltre due miliardi di persone mangiano a sufficienza. Sappiamo, anche, che alla fine della Seconda guerra mondiale, i lavoratori che guadagnavano un dollaro al giorno erano il 55 per cento della popolazione mondiale; attualmente sono soltanto il venti. In passato l’aspettativa di vita della maggior parte della popolazione del subcontinente indiano era di ventisette anni; attualmente, è di 63, la stessa dell’Europa della prima metà del Ventesimo secolo. 

Pertanto, non è affatto vero che “la fame è fortemente cresciuta rispetto al passato”, come ha perentoriamente affermato Emanuele Severino, dimentico del fatto che il direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione, José Graziano Da Silva, ha documentato che, “grazie al lavoro fatto sul primo Obiettivo del Nuovo Millennio, l’incidenza della fame sulla popolazione globale è diminuita di circa il 40 per cento, passando dal 18,7 per cento all’11,3. Nello stesso periodo, duecento milioni di persone sono uscite dalla fame”. Dal canto suo, Rao Gupta, vicedirettore dell’Unicef, ha sottolineato la drastica riduzione dei decessi dei bambini sotto i 5 anni, scesi da 13 milioni a 6 milioni.

 

Tutto ciò indica chiaramente che la globalizzazione ha reso il mondo in cui viviamo un posto migliore di quanto non lo sia stato nel passato, anche se molto resta ancora da fare, visto che un miliardo di esseri umani, assediati dalla fame e dalle malattie, lotta disperatamente per sopravvivere. Nei cui confronti, per altro, la sensibilità morale dei fortunati abitanti del mondo opulento sta crescendo, come è dimostrato dalla proliferazione delle agenzie che raccolgono denaro a favore dei “dannati della Terra”. Il che significa che la globalizzazione, oltre a essere un fenomeno  economico, è anche un  fenomeno morale. Sta quotidianamente allargando i confini dell’etica della solidarietà, un tempo angustamente nazionalista o, addirittura, classista. Talché oggi non è minimamente proponibile un’etica che non contempli i diritti, quotidianamente calpestati, dei proletari del Terzo mondo. Che è esattamente ciò che aveva genialmente intravisto Marx quando così si esprimeva: “Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico internazionale, un universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale così nella produzione spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, e con le comunicazioni infinitamente più agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. Di qui l’enorme influenza civilizzatrice del Capitale; la sua creazione di un livello sociale rispetto cui tutti quelli precedenti si presentano semplicemente come sviluppi locali dell’umanità e come idolatria della Natura”.

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