Il popolo di Draghi
Non serve essere populisti per essere popolari. Fatti e sondaggi sul capo (difensore) dell’Eurozona
Roma. Non serve essere populisti per essere popolari o essere dei tecnici per essere sistematicamente odiati dal popolo. La storia del presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi lo dimostra. Da sei anni, a due terzi del suo mandato in Bce, il banchiere italiano ha cementato il suo ruolo politico di garante non solo della sopravvivenza dell’euro – uno spazio monetario senza precedenti nella storia – ma anche dell’appartenenza di ogni stato membro all’unione monetaria, che è complemento del mercato unico, al di fuori del quale i paesi più deboli verrebbero stritolati. Un curriculum da direttore generale del Tesoro, presidente del Financial stability board, già vicepresidente di Goldman Sachs in Europa, motiva un indice di gradimento alla persona elevato, per meriti sul campo, e stabile nel tempo – a differenza di dei politici eletti, la cui popolarità dopo un po’ cala. Negli ultimi tre anni, secondo un sondaggio Ipsos Top Star del novembre scorso, il 45 per cento degli intervistati dichiara di avere migliorato il suo giudizio su Draghi, il 35 di non averlo cambiato e solo il 20 per cento l’ha peggiorato. Draghi è apprezzato come persona (non sappiamo come politico, l’appartenenza a un partito sposta l’opinione) dal 53 per cento degli intervistati mentre il 73 per cento lo ritiene molto competente e capace nel suo lavoro. Per il 60 per cento Draghi mette i propri interessi in secondo piano rispetto a quelli del compito che svolge, e soltanto per il 22 per cento ha a cuore solo il suo tornaconto. (E’ poi riconosciuto facilmente come personaggio pubblico: al 65 per cento basta una fotografia, se sollecitato con nome e carica il riconoscimento è quasi automatico). Non si può dire lo stesso per i politici eletti che si sono avvicendati da quando Draghi è in Bce. Nel frattempo in Europa sono caduti José Luis Zapatero, Nicolas Sarkozy, François Hollande. In Italia tre governi. Barack Obama negli Stati Uniti. Altri raccolgono consensi effimeri: l’ex premier italiano Matteo Renzi, ad esempio, da quando è entrato a Palazzo Chigi all’ottobre scorso ha dimezzato il suo indice di gradimento (dal 60 al 32). Altri vedono vacillare posizioni che parevano granitiche. Nella corsa elettorale per il governo federale tedesco di settembre, il consenso popolare della Mutti, la cancelliera di ferro, Angela Dorothea Kasner Merkel, al potere e con successo dal 2005, è insidiato: i consensi dell’Spd dell’ex presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, hanno di poco superato (31 per cento) quelli della coalizione al governo Cdu-Csu (30 per cento), secondo una rilevazione Insa-Bild.
Draghi ha più volte resistito alle pressioni dell’establishment tedesco dimostrando un’abilità diplomatica notevole nell’ottenere consenso all’interno del board della Bce. Nel 2012 l’economista Jürgen Stark si dimise dal comitato esecutivo per protesta contro l’inizio del Quantitative easing e col tempo le resistenze del capo della Bundesbank, Jens Weidmann, si sono affievolite. Se la Bce si fosse rifiutata di intervenire i mercati finanziari avrebbero sofferto gravemente e, a torto o a ragione, Draghi ne sarebbe stato ritenuto responsabile. Il Qe si sta rivelando efficace – il pil dell’Eurozona cresce da quattordici trimestri, negli ultimi dieci anni è cresciuto dell’1,9 per cento contro il 2,4 degli Stati Uniti – e probabilmente proseguirà oltre il 2017 “se necessario”, come ha detto Draghi lanciando una nuova sfida a Berlino dal Parlamento europeo durante un’audizione.
Le nuove famiglie di partiti cosiddetti populisti straparlano di “beni comuni”, eppure intendono smantellare l’euro, ovvero quella risorsa collettiva che ha difeso il blocco da choc plurimi, come Draghi ha ribadito confermando che l’unione monetaria è “irrevocabile”. Il pretesto per dirlo è stato un quesito dell’eurodeputato del Movimento 5 stelle, Marco Valli, tornato su un’interrogazione precedente che aveva fatto gran rumore. In una lettera di risposta al M5s sull’uscita dall’euro Draghi scrisse che costerebbe all’Italia 358 miliardi di euro – ma solo per pagare il saldo Target 2 (i costi collaterali sarebbero multipli di quella cifra). Il quotidiano tedesco Börsen-Zeitung strumentalizzò la cosa per dire che Draghi riteneva l’euro reversibile. Il banchiere ha risposto tuonando mentre Valli si ritraeva nello scranno, prima in italiano e poi in inglese in caso non fosse chiaro: “L’euro è irrevocabile, questo è il trattato. La mia risposta era a una domanda tecnica basata su presupposti che non sono previsti dal trattato”. I populisti fanno vanto di usare un linguaggio diretto, del quotidiano, che però maschera menzogne col paravento dell’onestà: il linguaggio di persone che non hanno tempo per pensare, che ripetono parole d’ordine con immotivato senso d’urgenza e termini rozzi, pure quando concetti complessi richiederebbero ben altro registro e competenze. I loro esponenti sono “telemani” ma si ritraggono da un confronto con i giornalisti dei grandi media. Le conferenze stampa di Draghi (che viene penoso dover accostare a personaggi non paragonabili pur soltanto a titolo esemplificativo) sono invece esemplari: non si sottrae alle domande, non svicola, elabora concetti complessi con parole comprensibili, non rifiuta il confronto con la stampa mondiale e gestisce chi non la pensa come lui da posizioni distanti anche quand’è addestrato al compito di bersagliarlo – capita con i giornalisti tedeschi o americani. Ma nemmeno fa la sibilla, come i tecnici professorali, ed espone i fatti sotto una ampia prospettiva storica e teorica affinché vengano compresi. Questo si chiama parlare chiaro e in modo onesto, davvero.