Piccoli despoti della Silicon Valley crescono in Borsa. Il caso Snapchat
Con l'Ipo di Snap gli azionisti non avranno più diritti. Ultimo stadio dell'involuzione della funzione del mercato borsistico da tradizionale canale per il finanziamento delle imprese all'esatto opposto
Milano. Per i piccoli geni di Silicon Valley il 14 marzo è da sempre il Pi day, la giornata scelta per festeggiare la comunità dei techies, i cervelli ad alto quoziente intellettuali e ad alto reddito cresciuti alla corte di Apple, Alphabet e gli altri campioni della new economy. Ma quest’anno, con il pieno di Mark Zuckerberg, Larry Page e degli altri big, la festa si trasformerà in una mobilitazione generale contro Donald Trump, sotto il fuoco della protesta per il bando anti immigrazione. E proprio mentre cresce la rabbia per la negazione dei diritti civili la new economy compie un nuovo passo, quello decisivo, per la cancellazione dei diritti degli azionisti e della democrazia in Borsa. In pieno stile trumpista, direbbero nella Valley.
Snap, casa madre di Snapchat, l’ultimo strepitoso successo del mondo App che si avvia a prendere il posto dei tweet, pur così cari a Donald Trump, ha fatto sapere che le azioni che saranno collocate via Ipo (valore iniziale stimato in 3 miliardi di dollari per una capitalizzazione di 25-26 miliardi) non godranno del diritto di voto. Anzi non avranno diritto alcuno, salvo il dividendo, una pratica ben poco diffusa a Silicon Valley dove gli utili vengono di norma reinvestiti in azienda. Non solo. La governance di Snapchat prevede che i fondatori dell’azienda, cioè il ceo Evan Spiegel, 26 anni, e il cio Bobby Murphy, restino in sella del gruppo anche nel caso che decidessero di dimettersi. Il prospetto specifica che il potere di voto della quota dei fondatori sarebbe diluito solo nel caso in cui gli stessi vendessero le loro azioni, o "nove mesi dopo la loro morte". Insomma, dopo i capitalisti senza capitali, così cari alla governance di Enrico Cuccia in Mediobanca, ecco i capitali senza azionisti in America.
Non è difficile capire i motivi della protesta dei fondi pensione e degli altri investitori istituzionali, che minacciano ritorsioni contro questo golpe del diritto societario. Ma è difficile che i vari Calpers o i fondi activist riescano a mobilitare gli azionisti, grandi e piccini, che intendono sottoscrivere comunque i titoli nella speranza (concreta) che Snapchat possano ripetere le performance di Google o di Facebook, piuttosto che di Apple, i colossi che non hanno mai avuto una relazione facile con i grandi azionisti. Steve Jobs, ad esempio, difese strenuamente il principio di scegliere chi voleva lui nel board, senza tener conto dei fondi azionisti. Altrettanto comprensibile l’obiettivo dei fondatori: usare l’Ipo per liberarsi dei private equity e dei banchieri (nel casi di Snap primi fra tutti Goldman Sachs e Morgan Stanley che li hanno finanziati in fase di decollo), sostituendoli con investitori più docili, malleabili e meno pretenziosi – e soprattutto silenziosi. Tutto ciò, naturalmente, dopo aver procurato ai big di Wall Street plusvalore stellari grazie all’Ipo.
È una pesante involuzione della governance azionaria, che si inscrive nel quadro di un profondo cambiamento del ruolo della Borsa, non solo americana: da tradizionale canale per il finanziamento delle imprese, il mercato azionario si è a poco a poco trasformato nell’esatto opposto, ovvero in un mezzo per restituire ai Big i quattrini accumulati dalle imprese. Dal 2015, nota il rapporto sull’economia globale del centro Einaudi, il capitale provato ha effettuato un disinvestimento netto da Wall Street ove hanno invece investito cifre notevoli le società stesse, acquistando prevalentemente azioni proprie tramite lo strumento dei buyback. Un fenomeno che, nel corso del 2016 si è tradotto un una media di 50 miliardi al mese di riacquisti. In sintesi, il compito di finanziare start up e matricole di livello è ormai appannaggio di più private e grosse firme di Wall Street. La Borsa serve per restituire profitti a scapito del flottante.
Il sistema ha alcuni effetti collaterali, tra cui un curioso fenomeno: la Borsa cresce di valore, grazie ai quattrini in arrivo dalle società stesse, ma rimpicciolisce perché il flottante viene assorbito dai gruppo di controllo. Un sistema destinato a funzionare, almeno finché i tassi lo renderanno conveniente. E, soprattutto, finché l’America saprà sfornare Ipo appetibili. Anche senza l’odioso fastidio delle assemblee di bilancio. Anzi, della presenza degli azionisti stessi.
tra debito e crescita