Uniamoci contro i protezionisti
Trumpismo no grazie. Il ministro Martina spiega perché un buon accordo commerciale oggi può essere più utile a un piccolo produttore di Bibbiano che a qualche big di Bruxelles
Sembra che fare accordi commerciali internazionali oggi sia come fare un patto col diavolo. Eppure, soprattutto il campo progressista, dovrebbe avere il coraggio e le parole giuste per rilanciare l’idea che il solo modo per proteggere è integrare. Il solo modo per tutelare davvero è aprire e regolare. Perché grandi aree integrate commercialmente sono anche veicoli formidabili di pace e cooperazione e la risposta alle crescenti diseguaglianze interne all’occidente non può essere il ripiegamento verso antiche logiche protezionistiche. Il presidente cinese Xi Jinping, intervenendo a Davos, ha definito queste scelte di chiusura “una stanza buia che tiene fuori la pioggia e il vento, ma anche il sole”. La storia si è già incaricata di spiegarci che le stagioni protezionistiche non hanno mai portato ad avanzamenti sociali, e sono sempre i deboli a pagare il prezzo più alto di queste torsioni. Quindi faremmo bene a discutere giustamente “come” fare nuovi accordi commerciali, e non “se”. Perché buttare il bambino con l’acqua sporca rischia innanzitutto di allargare il solco tra i deboli e i forti della globalizzazione. Rischia di aumentare il divario tra chi, come le grandi multinazionali, può in realtà anche fare a meno di intese e accordi per regolare standard, protezioni e aperture di mercati e chi (certamente i piccoli produttori) ha bisogno invece di strumenti codificati e di regole chiare per avanzare nei nuovi mercati e vedersi tutelare le qualità che esprimono. La verità è che un buon accordo commerciale oggi può servire di più a un piccolo allevatore produttore di Parmigiano Reggiano a Bibbiano, sulle nostre colline emiliane, che non a qualche grande azienda alimentare. Dunque, far ripartire i Trattati per Bibbiano, prima ancora che per Bruxelles o per Washington, è una sfida che merita un grande impegno. A maggior ragione visto lo scenario generale: la fine dell’esperienza Obama lascia oggettivamente un vuoto politico nel campo progressista che va colmato, anche se purtroppo all’orizzonte non si vedono ancora leadership riformiste in grado di organizzare questo rilancio.
Serve un cambio netto di paradigma. Un certo modello di globalizzazione ha fallito proprio perché ha fatto della deregulation il totem fondamentale ben prima che arrivasse Donald Trump. L’idea che il mercato potesse autoregolarsi e risolvere così ogni tipo di problema si è dimostrata non veritiera. I profondi disequilibri che si sono generati non sono più associati solo al rapporto Nord/Sud del mondo, ma sono diffusi a livello orizzontale andando a colpire in tutto l’Occidente la classe media. Il paradosso è che oggi la soluzione proposta da alcuni, spesso fan della deregolamentazione, sia una fase di chiusura assoluta, di dazi, di diffidenza verso l’esterno. Qualunque cosa significhi. Ma chi sarà in grado di affrontare un mercato globale più stretto? I piccoli produttori di qualità che investono nella sostenibilità delle loro produzioni, salvaguardano e promuovono i propri territori? O le multinazionali in grado di offrire prodotti standard, di delocalizzare la produzione senza troppi problemi e capaci di lavorare con margini ridotti? La risposta è nei fatti.
Serve una nuova via alla globalizzazione che parta da regole chiare, condivise, semplici. Dove la politica svolga il suo ruolo fino in fondo, garantendo tutele soprattutto ai deboli. Il premio nobel per l’economia Paul Krugman ha recentemente dichiarato che la distribuzione dei vantaggi del mercato globale dipende dalle regole e le regole sono il frutto delle scelte politiche. Vista dalla stalla del nostro allevatore di Bibbiano questa partita è decisiva. Avere ad esempio accordi di protezione delle indicazioni geografiche, come la Dop del Parmigiano Reggiano, significa poter tutelare fino in fondo il sistema di qualità che c’è dietro la sua produzione. Senza regole vincono la contraffazione, l’omologazione, e le grandi dimensioni di chi riesce a essere comunque sovranazionale. Senza regole la politica abdica al suo ruolo e si limita ad assistere.
La storia, anche recente, ci dice che quando siamo riusciti a chiudere accordi positivi si sono garantite meglio protezioni e opportunità. Penso ad esempio al grande lavoro che è stato fatto nel mercato unico europeo per far sì che anche in Germania, Francia o Olanda i nostri ispettori possano far ritirare subito dal mercato finti Grana Padano, Aceto balsamico o Prosciutto San Daniele. Penso anche al recente accordo Ceta chiuso dall’Ue con il Canada, che vede per la prima volta la protezione di quarantuno denominazioni italiane che ora avranno più tutele in un mercato tra i più importanti al mondo. Far riconoscere il diritto esclusivo a utilizzare un nome per un cibo e vietate false evocazioni è l’affermazione dei valori che noi promuoviamo da sempre. Consolida la via della distintività dei prodotti e delle produzioni, alternativa all’omologazione. E se oggi non si può produrre Prosecco o Barolo made in Usa è sempre grazie a un accordo fatto con gli Stati Uniti nel 2009 sul fronte vitivinicolo. Per un sistema agroalimentare come quello italiano, composto da un tessuto di migliaia di piccole e medie imprese capaci di creare valore aggiunto e guardare al mondo, poter esportare è ovviamente cruciale. Non è un caso che negli ultimi dieci anni le nostre esportazioni agroalimentari siano raddoppiate arrivando a superare nel 2016 la cifra record di 38 miliardi di euro. Se scattassero dazi e barriere tariffarie l’effetto sarebbe devastante. Lo abbiamo visto con l’embargo russo su alcune categorie di prodotto, che ha generato una crisi pagata soprattutto da piccoli e incolpevoli agricoltori e allevatori europei. Non più tardi di lunedì scorso a Bruxelles la Commissione europea ha presentato le analisi d’impatto sui singoli settori agricoli dei 12 accordi di libero scambio che sono in fase di trattativa. Colpisce un dato: tutte le proiezioni al 2025 prevedono un calo dei consumi interni dell’area Ue nell’ordine del 10/15 per cento su tutte le categorie di prodotto. Le potenziali vendite all’estero supererebbero invece di due o tre volte le mancate vendite interne. Per il bilancio delle nostre aziende, per il mantenimento e la creazione di posti di lavoro, le esportazioni sono e saranno sempre di più una voce indispensabile. Che passa dunque da buoni accordi internazionali di protezione e promozione. Altro che dazi, dogane e barriere.
Cosa non ha funzionato allora sul TTIP, l’accordo commerciale transatlantico? Ci sono stati molti errori, certo. Il primo, il più grave fatto dall’Unione europea, è stato quello di gestire la prima fase delle trattative in maniera troppo burocratica e segreta, scarsamente aperta all’informazione e alla trasparenza verso i cittadini. Non avere chiarito subito, ad esempio, che gli standard di sicurezza alimentare europei non sono mai stati oggetto di trattativa ha prestato il fianco a dannose strumentalizzazioni.
Facciamo bene quindi a rivendicare con forza la decisione presa dall’Italia, proprio durante il suo semestre di presidenza Ue, di imporre invece totale trasparenza sui negoziati e sul mandato che la Commissione aveva nel portare avanti i round negoziali con Washington. Ora tutti possono seguire passo passo i risultati raggiunti che devono essere sempre pubblicati in rete dalla Commissione europea.
Non si è sottolineato a sufficienza che il processo che porta all’approvazione in Europa di un accordo di questo tipo è fortemente democratico, tenuto conto che la sua potenziale entrata in vigore passa per l’approvazione di tutti i Parlamenti nazionali oltre che del Parlamento e del Consiglio europeo.
E’ stato un errore soprattutto far prevalere la tecnocrazia sulla politica. Occorre poi sciogliere contraddizioni e malintesi che non hanno aiutato a comprendere la portata di questi sforzi. Un esempio su tutti: non è possibile alzarsi il lunedì e dichiarare guerra all’italian sounding che toglie mercato per miliardi di euro ai veri prodotti agroalimentari italiani, e il martedì scendere in piazza contro accordi che sarebbero oggettivamente l’unica arma per combatterlo davvero.
Ma la rotta si può invertire. Una prima dimostrazione l’abbiamo avuta ad esempio quando, primi al mondo, come ministero abbiamo proposto ai più grandi player mondiali dell’e-commerce sul web di dare ai nostri marchi geografici Dop e Igp la stessa tutela contro il falso che garantiscono ai brand commerciali. Un risultato che inseguivamo da anni al WTO e che abbiamo conseguito in poche settimane lavorando in autonomia. E’ così che colossi come eBay e Alibaba oggi rimuovono dai loro scaffali virtuali migliaia di tonnellate di falsi parmesan, grana padano, mozzarilla o chianti. Per tutelare prima di tutto la loro credibilità e reputazione. Per proteggere i consumatori dalle truffe e rispettare le regole. Passa anche da qui la possibilità di offrire un’alternativa ai populismi che propongono di alzare muri e barriere. Perché così si tutela il piccolo e non solo il grande, che peraltro si autotutela spesso senza che ci sia bisogno dell’azione del pubblico.
Certo in questa nuova partita globale tra protezione e promozione, aperture e chiusure, distintività e omologazioni, grandi e piccoli, è molto facile agitare fantasmi e sollecitare reazioni istintive. Un esempio che mi viene in mente è quello legato all’invasione (mancata) dell’olio tunisino in Europa che si sarebbe dovuta determinare a causa dell’accordo di cooperazione straordinario siglato da Bruxelles con la Tunisia per sostenere il processo di pacificazione interno a seguito della crisi del paese. Per giorni e giorni, l’anno scorso, una certa politica – Lega e grillini in testa guarda caso – ha soffiato sulla notizia giocando una propaganda estrema. “Invasione di olio dalla Tunisia”, “Massacrate le regioni del sud da Bruxelles”, erano gli slogan più ricorrenti. Nulla di più falso, a conti fatti. Un anno dopo l’annuncio di cooperazione straordinaria, legata anche al contrasto al terrorismo internazionale, i numeri delle operazioni effettuate concretamente rovesciano completamente i toni utilizzati dalle polemiche furenti di quei giorni: delle circa 70 mila tonnellate di olio tunisino a dazio zero autorizzate (trentaseimila all’anno per un biennio) solo 1.900 sono effettivamente entrate in Europa. Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire. Eppure la questione è nevralgica. Perché il caso dell’olio tunisino ci dice della doppia difficoltà che vive l’Europa oggi: farsi riconoscere dal suo popolo per le scelte che compie e promuovere effettivamente passi utili per sostenere la stabilità e la pace nel Mediterraneo con efficaci azioni di cooperazione. Anche in campo agricolo. Si potrebbe dire che con l’olio tunisino abbiamo verificato la massima popolare “oltre il danno, la beffa”: il danno di una scelta incompresa a casa nostra e per questo vissuta come fortemente dannosa per le nostre produzioni, la beffa di non avere nemmeno aiutato davvero i produttori tunisini. A speculare politicamente su tutto questo ci hanno pensato i populisti di casa nostra. Certo è che cattivi accordi possono produrre guasti pesanti: economicamente e politicamente. Lo abbiamo vissuto ad esempio verso i risicoltori vietnamiti e cambogiani che avremmo dovuto favorire azzerando i dazi sul loro riso venduto in Europa, sempre attraverso un accordo di cooperazione, salvo scoprire poi che ad arricchirsi sono spesso investitori stranieri e trader che da fuori confine investono in quelle aree. L’effetto di queste scelte si scarica purtroppo nelle campagne della Lomellina o nel Novarese, dove sono crollate le quotazioni del riso italiano. Questo a conferma di come proprio il nostro Paese sia uno dei più sensibili ed esposti a queste dinamiche internazionali. Senza accordi siamo deboli, cattivi accordi ci danneggiano. Buoni accordi costano fatica ma sono indispensabili. Torno a dire: più per i piccoli che per i grandi.
Ecco perché spetta a noi il compito di essere alla testa di una sfida di cambiamento in Europa. Dobbiamo lavorare a nuovi rapporti internazionali e a nuovi accordi commerciali, riformulando in particolare gli strumenti per garantire innanzitutto due principi irrinunciabili: reciprocità e sistema di compensazioni. Sul primo è necessario approfondire e rendere stringente il lavoro sui diritti e sugli standard di sicurezza che devono essere alla base delle concessioni reciproche. Troppo spesso ci sono stati compromessi al ribasso in passato, sul fronte dei diritti dei lavoratori e sulle politiche ambientali inaccettabili.
Sul secondo asse, quello delle compensazioni, il lavoro è completamente nuovo. Ma è un punto politico nevralgico. Come risarcire in forme nuove chi è toccato negativamente dall’apertura dei mercati? Una volta valutati gli impatti servono meccanismi redistributivi e compensativi che non lascino indietro nessuno, soprattutto quelle realtà medio-piccole che troppo spesso sentono di pagare il prezzo del biglietto di uno spettacolo al quale non partecipano. Il rischio concreto che stiamo vivendo, altrimenti, è ingrossare le fila di chi cede alla propaganda facile, alla voglia di chiudere la porta e nascondersi dietro dazi, frontiere e muri sempre più alti. In realtà quei muri, alla lunga, soffocano i piccoli e fanno prosperare solo i grandi. Magari potranno fare contenti alcuni a Washington. Ma non certo a Bibbiano.
L’autore è Ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali