Un paese ostaggio dei poteri di veto
I tassisti protestano. Il “servizio pubblico” è più al sicuro con maggiore concorrenza
Roma. Blocchi stradali e sit-in, traffico paralizzato, sospensione del servizio taxi negli aeroporti. Sciopero selvaggio in tutta Italia. I tassisti manifestano contro la norma “a favore di Uber” in nome del servizio pubblico, ma proprio i modi della protesta fanno capire quanto il concetto stesso di “servizio pubblico” sia diventato proprietà di qualcuno. La violazione del diritto alla mobilità dei cittadini, tenuti in ostaggio da una minoranza organizzata, da sola basta a dimostrare che il “servizio pubblico” sarebbe più al sicuro con maggiore concorrenza, lontano da monopoli e licenze. Ma più si va dentro alle motivazioni della protesta dei tassisti, più si comprende che le ragioni stanno da tutt’altra parte.
A differenza di quello che si è portati a pensare, l’emendamento “pro Uber” al decreto Milleproroghe che ha innescato la rivolta non è affatto una liberalizzazione e non è neppure “pro Uber”, ma è una norma che lascia le cose come stanno. Da quasi dieci anni il governo dovrebbe approvare un piano per regolare il trasporto con conducente, che viene di anno in anno rimandato. In attesa del piano è sempre stata sospesa la norma che imporrebbe agli Ncc (noleggio con conducente) di non sostare sul suolo pubblico fuori dal comune che ha concesso la licenza. “In pratica gli Ncc dovevano tornare ogni volta in autorimessa, un obbligo che limita la concorrenza – dice al Foglio Linda Lanzillotta, la senatrice autrice dell’emendamento – Il piano è stato ulteriormente rinviato a fine 2017 e l’emendamento mira a lasciare ancora sospeso l’obbligo di tornare in autorimessa. In sostanza, sul piano formale non cambia nulla”. Semplicemente si evita un’ulteriore riduzione della concorrenza.
E’ completamente priva di senso logico anche l’accusa che l’emendamento sia un regalo alle “multinazionali” come Uber, per il semplice fatto che anche i taxi si affidano ad app simili come MyTaxi, che è di proprietà della Mercedes-Benz. Il problema quindi non sono le multinazionali, ma la concorrenza. Da questo punto di vista, più che conservare l’esistente, il legislatore dovrebbe approvare riforme per aprire il mercato, le stesse che da anni chiedono le authority. L’Antitrust nella sua Segnalazione per la legge annuale sulla concorrenza – legge che a dispetto del nome non è mai stata approvata dal 2009 ed è ferma in Parlamento da 3 anni – propone di eliminare ogni discriminazione fra taxi e Ncc “in una prospettiva di piena sostituibilità dei due servizi”. Equiparazione quindi, altro che ritorno in autorimessa.
Della stessa opinione è l’Autorità dei trasporti che nella Segnalazione al governo e al Parlamento ha tracciato un quadro desolante del settore taxi, dove la restrizione dell’offerta ha fatto schizzare i prezzi verso l’alto nonostante la crisi economica: “Tra il 2006 e il 2014 – scrive l’Authority – a fronte di un aumento dell’inflazione del 15 per cento, a Roma le tariffe sono aumentate del 37 per cento, a Firenze del 29 per cento e a Milano del 23 per cento”. Tariffe così elevate escludono dal “servizio pubblico” le fasce più povere della società: “Il servizio di taxi soddisfa principalmente taluni segmenti del mercato, in particolare quello della popolazione con reddito medio-alto, dell’utenza business e, in parte, quello legato al turismo”. Secondo un’indagine del comune di Roma sui servizi pubblici solo il 10 per cento dei cittadini usa il taxi, mentre il 67 per cento non ne ha mai preso uno a causa del costo elevato. E questo perché l’offerta è tenuta artificialmente ristretta. Secondo uno studio della Banca d’Italia in oltre il 40 per cento delle città italiane sono trascorsi più di 20 anni dall’ultima assegnazione di licenze taxi e in otto città non si fanno concorsi dagli anni Sessanta. Se l’obiettivo del governo è lasciare tutto com’è, più che i tassisti dovrebbero protestare i cittadini, che hanno bisogno di maggiore concorrenza e prezzi più bassi.