Come ridare energia al paese? Nessuna fonte né opportunità di ricerca e sviluppo deve essere lasciata indietro (Montecitorio al “buio” nella giornata del risparmio energetico, LaPresse)

Energia o demagogia

Alberto Brambilla

Petrolio, gas, elettricità, sfide agli ambientalisti. E’ possibile parlare di crescita energetica senza annoiarsi e sfidando dogmi e ideologie? Ci abbiamo provato. Appunti da un forum fogliante

Roma. L’Italia sta cominciando a discutere, con audizioni parlamentari, di quale sarà la sua Strategia energetica nazionale (Sen) al 2030, un documento programmatico nel quale si prevedono gli obiettivi di sicurezza, di qualità, di indipendenza e di economicità nel mondo dell’energia e gli aspetti collegati all’ambiente in un orizzonte decennale. Parlare di “strategie” è delicato in un paese che da oltre quarant’anni rappresenta un caso deteriore di capitalismo, tendente all’assistenzialismo, con scarso spirito e capacità di innovazione, soprattutto di comprensione popolare dei benefici degli sviluppi tecnologici. L’animosità ambientalista, di cui pure è pregna la classe dirigente, e la conseguente reazione opposta dell’industria petrolifera, non aiutano a generare un dibattito lucido. Il rischio di non studiare bene la gittata e fare grossi errori è dunque dietro l’angolo. Quando si cerca una direzione strategica, la demagogia strisciante è un guaio che il Foglio ha voluto analizzare durante una tavola rotonda realizzata in collaborazione con l’associazione Ottimisti & Razionali il 27 febbraio scorso grazie all’intervento di esperti e stake-holder direttamente coinvolti, dal mondo degli idrocarburi, delle fonti rinnovabili, della produzione e distribuzione dell’energia elettrica e del gas, moderati da Claudio Cerasa. Non sono mancati colpi bassi rivelatori di un dibattito franco. Gli interlocutori sono tuttavia approdati, da posizioni diverse o divergenti, alla sintesi per cui sarà meglio non spingere verso modelli avanguardistici sull’onda di tendenze tecnologiche in voga, tipo l’auto elettrica, ma bilanciare l’origine delle fonti con attenzione agli obiettivi europei consegnati dalla Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici. Ma soprattutto correggendo gli errori passati, per cui si sono privilegiate singole tecniche, dal gas al fotovoltaico, perseguendo l’ambizione di confezionare una strategia a prova di futuro con l’effetto perverso di creare gravi distorsioni nel mercato. Oggi emerge l’idea di adottare un approccio graduale da adattare a un domani incerto. Il panorama infatti è oscuro come dice il professor Giulio Sapelli, docente di Storia dell’economia all’Università statale di Milano nell’introduzione al dibattito, partendo dalla relazione tra crescita ed energia in Italia in un contesto geostrategico spietato e in continua evoluzione.

 

“Energia significa sviluppo, crescita e fare i conti con i problemi seri di un paese nel breve e nel lungo periodo”

“I dati recenti sulla situazione economica ci presentano quella che è stata una storica malattia italiana: una divaricazione tra un sistema industriale che punta all’esportazione, innovativo che si confronta con mercati evoluti e crea valore aggiunto e occupazione, ma in misura minore rispetto alle esportazioni che genera. Naturalmente il modello export-led non può pensare di fare a meno della crescita della domanda interna, se non sfrutta tutte le risorse nazionali. Se guardiamo all’energia in quest’ottica, per cui le economie si sviluppano quando mettono in situazione minoritaria le posizioni di rendita mentre esaltano quelle che possono dare profitto capitalistico e nuovi investimenti, capiamo quanto sia centrale la questione energetica: non si pensi di creare una parte delle risorse energetiche via sussidi, ma piuttosto a qual è il sistema di fonti energetiche integrate più idoneo a crescere. Dobbiamo superare polemiche di astiosità che oggi sono accentuate: dal punto di vista degli opinion makers abbiamo collegato la produzione di fonti elettriche al sostegno delle energie rinnovabili che è inserito solo in un problema ambientale. Ma chiediamoci – continua Sapelli – fino a che punto si può raggiungere la produzione del 20 per cento dell’energia nazionale rapidamente secondo i tempi richiesti dall’Europa, senza ingenti sussidi e cosa fanno Germania e Polonia dove la produzione di energia elettrica – nel caso tedesco – deriva al 40 per cento dal carbone di lignite, che ha i più bassi rendimenti al mondo. Noi abbiamo chiuso Carbonia in Sardegna. Se espletassimo quella che sembra sia una gran parte del grosso patrimonio gasifero e petrolifero (Basilicata, Sicilia, dorsale appenninica, adriatica) diminuiremmo la nostra dipendenza estera del 10-15 per cento. Mi chiedo se è possibile superare l’ostinata resistenza cognitiva, simbolica, antropologica dell’opinione pubblica, e anche di questa parte della classe politica, per cui la tecnologia non ha nessuna possibilità di mitigare le possibili conseguenze negative dell’uso degli idrocarburi ricercati sul territorio nazionale. Se il nostro obiettivo è la crescita è meglio pensare a una politica di integrazione tra fonti energetiche, non chiamarle più fonti energetiche ‘alternative’ ma chiamare ‘integrative’. Se l’obiettivo è accrescere la tutela ambientale non c’è niente di meglio. E poi amici non raccontiamoci frottole: nonostante quello che dicono alcuni, ci sono molti dubbi sul fatto che le macchine elettriche diventino veicoli di massa. Il petroliere trasporta, il gassista riscalda, l’alternativo illumina e un po’ riscalda anche lui”, così va il mondo secondo Sapelli. Anche perché, a guardarsi intorno, “la questione in medio riente si fa sempre più grave, sta cambiando tutto in modo eccezionalmente rapido: non vorrei che quello che ci arriva dalla Libia facilmente, o da Algeria ed Egitto, fosse a rischio”, dice. “Da un punto di vista di difesa dell’interesse nazionale, pensare di avere sempre la possibilità di un passo indietro, valorizzando le risorse che abbiamo (siamo il terzo paese europeo per giacimenti dopo Germania e Polonia), è utile. Avere dei presidi di raffinazione poi è importante. Per la Sen, servono cooperazione non conflitto, integrazione, e un pensiero sul fatto se una nazione, come sosteneva David Ricardo, non abbia il dovere di sviluppare tutte le ricchezze di cui dispone, compresi gli idrocarburi”.

 

A rispondere per primi sono i politici, Ermete Realacci, Pd, la prende larga e parte dal nucleare dicendo che è in “occidente è morto”, quindi i No Atomo ci avevano visto lungo e giusto (la platea mormora). Dopo la polemica Realacci va al punto: “Risparmio energetico e rinnovabili sono il driver”. “In Europa siamo quelli che recuperano più materie prime: 47 milioni di tonnellate l’anno (rottami, carta, plastica, vetro), questa è una sfida del futuro”, autoproduzione di energia, attraverso il riciclo di materie prime. Poi “l’edilizia del futuro: recupero, manutenzione, riqualificazione, distruzione e ricostruzione con nuovi criteri di efficientemente energetico, questo abbatte la bolletta”. “A proposito dei trasporti, l’auto elettrica – dice rivolgendosi a Sapelli – ha una efficienza importante. Se ci sarà un salto tecnologico, ne riparleremo”, scommette. Davide Crippa, deputato M5s, è sulla stessa lunghezza d’onda, e non solo sulle auto elettriche. Vorrebbe un sistema energetico e non lo spostamento su un’unica tecnologia che ha “portato a programmazioni errate in passato, sovra incentivazioni, anche delle rinnovabili creando distorsioni di mercato, fotovoltaico, eolico, mini idro, biomasse rappresentano un problema di 12 miliardi caricati in bolletta”.

 

“Un contesto economico e geopolitico in transizione e spietato suggerisce di valutare l’uso delle risorse interne di idrocarburi”

Tutto ma “non aumentare le estrazioni di idrocarburi né trivellare”. “Sono assolutamente contrario: mettere in relazione delle economie distrutte con la necessità di trivellare in zone dove abbiamo prodotti di eccellenza agroalimentare può essere un problema, come accade dalle mie parti nei pressi di un noto caseificio di Gorgonzola. Ripercorrere le esplorazioni petrolifere non darebbe un prodotto innovativo”. Una bestemmia per una vecchia volpe del settore oil come Salvatore Carollo, esperto di politiche energetiche. “Se seguiamo questo passo tra dieci anni non avremo più raffinerie né una produzione interna. Una Sen seria non può girarci intorno senza tenere conto della realtà del mercato né degli scenari geopolitici: energia significa sviluppo, crescita e fare i conti con i problemi seri di un paese nel breve e nel lungo periodo.

 

Parlare di energia senza tenere conto degli scenari geopolitici significa fare discorsi da spiaggia, una Sen modello ‘minigonna’. La domanda di petrolio negli ultimi quindici anni è passata da 70 milioni di barili al giorno a 100 milioni e cresce senza freno, e mentre c’è la crisi del petrolio. Il nostro paese è uscito dal ‘medioevo’ per entrare nell’epoca contemporanea grazie a una metanizzazione capillare. Le imprese della filiera di cui dicevamo si sono formate sui campi italiani e sono leader nel mondo di esportazione di tecnologie, un valore annuo di 100-120 miliardi di euro. Non si può nemmeno prescindere dalla raffinazione, un pilastro della Sen. Con i ricavi delle vendite delle benzine e del Jet-Fuel, per gli aerei, ripagavamo la materia prima comprata dai paesi arabi. Se vogliamo smantellare tutto… benissimo. Ma sappiamo che dovremo costruire pipeline per importare la produzione persa da migliaia di chilometri di distanza? Ciò inquina perché il 15 per cento del metano trasportato viene bruciato nelle centrali di compressione e si immettono nell’atmosfera tonnellate di Co2. Nessuno poi investirà più qui: i petrolieri sarebbero ben felici di andarsene dall’Italia, perché tolto il vantaggio di produrre in loco, altri vantaggi non ce ne sono. Il mondo – conclude Carollo – per un periodo di trenta, quaranta, cinquant’anni si batterà per il controllo degli idrocarburi perché tutti sono convinti che in questa fase siano decisivi. La Sen non può ignorare il problema, se no siamo alla minigonna”.

 

Claudio Spinaci, Presidente dell’Unione Petrolifera, invita a tenere ogni opzione aperta per incontrare gli obiettivi ambientali ma senza dimenticare il dato di realtà per cui le fonti fossili sono dominanti e uno smantellamento preordinato avrebbe effetti catastrofici su un’intera industria e indotto. “Dobbiamo vedere in prospettiva una transizione lunga e collocarla tenendo in considerazione molti fattori: il 79 per cento del fabbisogno energetico nazionale è coperto da fossili (36 per cento prodotti petroliferi, 35 per cento gas), poi c’è un 7-8 per cento di carbone. Sul settore dei trasporti il petrolifero (nei trasporti copre il 95 per cento), anche secondo le analisi più ottimistiche sulla penetrazione delle rinnovabili, potrà arrivare nel 2030 all’85 per cento. Una filiera che regge il paese, garantisce 100 milioni di litri al giorno distribuite in tutta Italia, è capillare e dev’essere considerata strategica, e lo sarà per i prossimi venti o trent’anni. E’ difficile capire quanto sarà veloce la tecnologia e quanto saremo in grado di sostituire questa fonte. Da questo punto di vista, una Sen seria deve tenere in considerazione tre aspetti: garantire la sicurezza energetica del paese, la crescita competitiva delle nostre aziende a livello internazionale, non solo nazionale, e la questione ambientale per cui la Cop21 è un target da raggiungere entro il 2030. La sfida sta nel tenere insieme i tre obiettivi e il problema di certi discorsi demagogici è che come al solito ognuno privilegia un aspetto e immola tutto il resto al suo principio. Questo approccio alla fine diventerà insostenibile dal punto di vista sociale, ancora prima che economico. La Sen dovrebbe dire che ci deve essere una competizione positiva tra le diverse fonti che tenga conto della capacità di rispondere all’obiettivo ambientale e tiri fuori un mix che, con il minor costo per il paese, garantisca il target di lungo termine. Siamo consapevoli che il nostro settore è destinato a un ridimensionamento, tutti parlano di decarbonizzazione. Il rischio di dare un phase-out a una data predeterminata, con annunci irresponsabili, è di fare danni già da oggi. Qualcuno vorrebbe vietare per legge i carburanti di origine fossile? Chiediamoci chi investirebbe, oggi, se questa è la prospettiva”.

 

E’ sul mix energetico che si concentra anche Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione Italiana Nucleare. “Il principale

“L’evoluzione irreversibile del mercato va verso l’elettricità e il gas. Urge contemplare più fonti bilanciando incentivi e oneri”

problema è un certo dogmatismo e conformismo della classe politica sul tema energetico e sulla Strategia energetica nazionale. Nel periodo che va dalla conferenza di Parigi a oggi ci sono alcune tendenze in contraddizione con alcuni dogmi che abbiamo sostenuto nel decennio passato che rischiano di non essere assolutamente valutati dalla politica. Non possiamo nasconderci che la Sen, da dieci anni a questa parte, ha perseguito una strategia mono-fuel. Abbiamo puntato cioè strategicamente ed esclusivamente sul gas immaginandoci un mercato internazionale che purtroppo non è quello che si sta realizzando. La rivoluzione americana ha sconvolto il quadro al punto da cambiare il paradigma di riferimento tra i grandi paesi industrializzati. Non simpatizzo per i dogmi ambientalisti ma lo scenario sta cambiando. I punti principali dell’accordo su clima dell’accordo di Parigi, Cop21, non danno obiettivi costringenti di riduzione delle emissioni perché lo scenario è diverso e cambia.

 

Il problema per molti paesi, Cina ad esempio, è che si blocchino i processi di crescita perdendo la sfida con gli americani. Parigi non ha fissato obiettivi certi di emissioni perché c’è timore che questo unilateralismo sia in contraddizione con il problema della competitività tra aree economiche. Lo stesso vale per l’Europa che è costretta a fare i conti con la complicazione energetica. La nostra strategia si è concentrata unicamente sul gas, rischia di essere un indebolimento strategico: penso che una più accorta e previgente politica nazionale non possa che tornare a una pluralità del mix energetico, facendo leva su tutte le fonti su cui possiamo contare. I politici parlano delle rinnovabili che hanno abbassato strutturalmente il prezzo di generazione dell’energia creando però una distorsione radicale nel mercato che richiederà investimenti e sforzi per essere corretta. Il basso costo delle energie rinnovabili determina una reazione di crisi verticale: non abbiamo risolto il problema della intermittenza e dello stoccaggio di questo tipo di energia. Abbiamo bisogno che a fianco di questo settore si mantenga forte il settore di gas e di idrocarburi affinché consenta di fare funzionare il sistema. Ma il meccanismo dei prezzi sta dilapidando il sistema di generazione da gas e da fonti convenzionali. Siamo in una condizione proibitiva. Una strategia energetica dovrebbe fare i conti con questo problema. Ciò implica una visione diversa rispetto ai soliti incentivi alle rinnovabili e all’approccio ‘tutto gas’. Urge autocritica”.

 

Simone Mori, presidente di Assoelettrica, invita a non guardare alla situazione con la logica del “derby” tra settori e a non chiudere gli occhi davanti alle tecnologie emergenti, come l’auto elettrica, che sono oramai irreversibili, e dunque da accompagnare. “In questi dibattiti sulla Sen emerge una difesa di posizioni molto partigiane che ricorda il reducismo di noi elettrici quindici anni fa. Ci troviamo in un contesto di cambiamento di un paradigma industriale che ha per larga parte delle determinanti totalmente esogene – una politica delle fonti che viene determinata dai mercati internazionali, una politica climatica che non è vero che non ha degli obiettivi non vincolanti, ci sono degli impegni, ma c’è soprattutto un processo di cambiamento tecnologico che ha una forma abbastanza evidente. E che supera questi dibattiti molto asfittici tra una fonte e l’altra come se fosse un derby. Qualunque sia lo scenario di breve o di lungo termine, fra ‘x’ anni ci sarà sia più elettricità sia più gas. E’ un fenomeno irreversibile. C’è un altro fenomeno irreversibile che fa vedere come in tutte le nazioni non solo avanzate ma anche emergenti c’è una riduzione della quantità di energia per unità di ricchezza prodotta e una quantità di elettricità crescente per unità di energia consumata. Cioè si usa più elettricità per usare meno energia: è un fenomeno irreversibile legato a un passaggio di piattaforme tecnologiche. Non vuol dire che un domani non avrò più bisogno del petrolio per fare andare i camion o le navi o gli aeroplani. Vuol dire che alcune cose cambieranno.

 

“La Sen deve garantire la sicurezza energetica del paese, la crescita competitiva delle nostre aziende a livello internazionale”

Quello che la Sen può fare è accompagnare questo processo di transizione senza avventatezze ma dando una indicazione di respiro su quali saranno le tendenze evolutive. Le imprese del settore, convenzionali e quelle rinnovabili, sono parte integrante di un sistema di imprese italiano che non deve essere considerato ultroneo ma semplicemente parte di un sistema di imprese che rappresenta grandi multinazionali, fondi di investimento, una miriade di piccole imprese ad alta tecnologia che producono in Italia ed esportano. I grandi bid, le grandi gare, su rinnovabili nel mondo sono vinti quasi sempre da imprese europee, in molti casi italiane. La Sen può prendere atto di questo processo, non c’è bisogno di richiedere sussidi: infrastrutturale il sistema dell’auto elettrica non richiede un sistema di sussidi complicato, nella misura in cui l’acquisto di una automobile diventa ragionevolmente competitivo nella fase di decollo della tecnologia, il sistema di infrastrutturazione poi arriva da solo.

 

Il modo confuso in cui si è arrivati al contesto in cui ci troviamo ha messo in crisi alcuni baluardi del mercato. Non serve la scienza dei missili ma un minimo di programmazione per dare continuità all’investimento. Non è un derby: c’è un mondo di evoluzioni tecnologiche e noi dobbiamo solo accompagnarlo senza fare avventatezze”. Andrea Zaghi, responsabile ufficio studi e relazioni esterne Assorinnovabili, difende ovviamente le fonti rinnovabili. “Siamo d’accordo che bisogna usare le fonti di cui disponiamo, fonti fossili comprese, ma abbiamo anche il sole, il vento che sono fonti nazionali, cercando di valorizzare le esternalità negative dell’utilizzo di quelle fossili. Se è vero che fonti fossili provocano infatti danni al clima, inquinamento atmosferico, allora da qualche parte i costi legati a queste esternalità devono essere allocate. Ad oggi sono pagate dallo Stato. Secondo noi questi costi dovrebbero essere attribuiti alle fonti fossili con un prezzo pari a 40 euro a tonnellata di Co2 così come indicato dalla Commissione Europea. Per non danneggiare il sistema industriale europeo si dovrebbe poi introdurre una carbon tax per i prodotti extra europei. In questo modo, le fonti rinnovabili sarebbero competitive con gas e carbone. Anche se per certi aspetti lo sono già: l’ultima asta sull’eolico ha visto un prezzo a Megawattora di 66 euro. Inoltre, nella Strategia energetica nazionale bisognerà evitare interventi retroattivi, lo ‘spalma incentivi’ è una ferita aperta, ha messo in discussione il patto tra il produttore e lo stato che eroga l’incentivo.

 

Con questo tradimento, certificato anche dalla Corte costituzionale, s’è fatto un danno. Non si torna indietro da un patto”. Il punto di vista della Associazione nazionale industriali gas (Anigas), sintetizzando un po’ il senso della discussione, chiede che la Sen non sia preconfezionata sulla base di convinzioni deterministiche. “Abbiamo un sistema energetico molto sviluppato ma dobbiamo migliorarne la competitività facendo delle opere selezionate per riuscire a trovare soluzioni per un sistema sempre più integrato. Avere la cartina di tornasole per dire che una cosa funziona di certo è difficile. Abbiamo una base solidissima su cui lavorare. Occorre fare ricerca e sviluppo, ad esempio puntando sul biometano, su cui pochi anni fa non puntava nessuno ma che oggi rappresenta parte del futuro. Dobbiamo riuscire a capitalizzare quello che abbiamo e far sì che le cose non mature siano materia di sviluppo. Sussidio o incentivo è fonte di dibattito: un dato a livello europeo dice che se riuscissimo a togliere il 50 per cento del carbone e sostituirlo con gas nella produzione elettrica avremmo 250 milioni di tonnellate circa di Co2 in meno a fronte di una stima che affianca le 250 milioni di tonnellate in meno a 400 miliardi di investimento in reti elettriche. Non bisogna dire che qualcosa è giusto o sbagliato ma che abbiamo l’opportunità di guardare alle azioni immediatamente disponibili. L’importante è la sostenibilità per le tasche degli italiani. Non abbiamo tassi di crescita come la Germania. Dobbiamo fare scelte sostenibili sia dal punto di vista tecnico sia economico per le famiglie. Altrimenti tante cose restano asfittiche, perché non sono realizzabili. Bisognerà affrontare le cose: dobbiamo evitare di preconfezionare nella Sen quello che sarà il mondo tra vent’anni”. Vivere il presente e non essere ossessionati dal futuro è una popolare buona regola nella filosofia Zen del buddhismo giapponese che, in fondo, ben si adatta in Italia al dibattito in corso sulla Sen.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.