L'Italia può crescere solo combattendo i sostenitori dell'agenda Tafazzi
Siamo davvero un paese marcio, corrotto fino al midollo e distrutto da politiche liberiste? Consigli per sopravvivere ai nuovi professionisti dell’apocalisse
Nell’Italia della post verità, come denunciato magnificamente sabato su questo giornale da un sindacalista coraggioso come Giuliano Cazzola, molti politici, molti opinionisti, molti intellettuali, molti conduttori e molti giornalisti hanno scelto deliberatamente di sposare l’agenda Tafazzi portata avanti dai partiti anti casta e hanno iniziato da tempo a osservare il paese con la stessa lente d’ingrandimento scelta dai populisti per mettere a fuoco lo stato di salute del nostro paese. Un partito anti sistema, si sa, può arrivare a governare il paese se dimostra che il paese in cui vive è marcio fino al midollo e sfogliando ogni giorno i quotidiani e ascoltando ogni giorno i talk-show l’immagine dell’Italia sembra essere, senza ombra di dubbio, quella di un paese putrefatto, immobile, senza speranza, governato da una classe politica corrotta fino alle budella, dominato da un eccesso di politiche neo-liberiste che hanno impoverito i giovani, condannato generazioni di ragazzi alla disoccupazione e messo sul lastrico i poveri pensionati. Chiunque osi sfidare, con una versione differente da quella descritta, la Nuova Verità portata avanti dai professionisti della Post Verità è destinato a essere immolato sul patibolo del tribunale del popolo, assalito da un’onda di troll assetati di menzogne.
Eppure c’è solo un modo per evitare che i professionisti della post truth politics possano passeggiare su un paese descritto come loro lo sognano ed è quello di raccontare i fatti partendo da alcuni numeri utili a fotografare con un obiettivo diverso lo stato di salute del nostro paese. Illudersi di voler riportare la verità su come sta l’Italia è un’impresa ambiziosa e forse impossibile, ma passare in rassegna alcuni numeri e alcune considerazioni non scontate per spiegare perché l’Italia non è un paese putrefatto, immobile, senza speranza, governato da una classe politica corrotta fino alle budella, dominato da un eccesso di politiche neoliberiste che hanno impoverito i giovani, condannato generazioni di ragazzi alla disoccupazione e messo sul lastrico i poveri pensionati può essere un esercizio utile per ristabilire un po’ di ordine.
I problemi dell’Italia esistono, eccome, ma non sono quelli che vengono descritti ogni giorno sui giornali per attaccare la classe politica. I problemi dell’Italia non derivano da un eccesso di liberismo – nel 2016, come documentato dall’ultimo bollettino dell’Istat, le uscite totali delle amministrazioni pubbliche sono risultate pari al 49,6 per cento del pil e rispetto al 2015 sono aumentate uscite correnti, consumi intermedi e prestazioni pensionistiche – ma da un eccesso di statalismo, che spesso si combina a un eccesso di burocrazia e che per questo produce effetti devastanti sulla tenuta economica del nostro paese. Nel saggio, appena uscito, firmato da Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri (“I signori del tempo perso”, Longanesi) si dimostra per tabulas che i problemi del nostro paese sono legati a un’incapacità della macchina pubblica di riformare se stessa, di competere come dimensioni delle aziende con quelle dei big europei e di essere al passo con quel pezzo d’Italia produttiva che negli ultimi anni ha ricominciato a correre e non soltanto nel nord.
Non è colpa del liberismo imperante se nel nostro paese una piccola impresa impiega 240 ore all’anno contro una media Ue di 176 ore per presentare le dichiarazioni fiscali. Se nel settore della concorrenza siamo 67esimi al mondo nell’indice dei mercati e dei beni. Se tra il 1995 e il 2015 si è registrato un aumento del tasso medio annuo della produttività pari allo 0,3 per cento contro una media Ue dell’1,6. Se il nostro flusso in entrata di investimenti stranieri in Italia è pari a un quarto della media dei paesi Ue. Se svolgere un’attività imprenditoriale in Italia rimane più complicato rispetto a molte altre economie comparabili. Se l’indice sulla competitività globale elaborato dal Forum economico mondiale ha piazzato l’Italia al 43esimo posto su 140 paesi. Se il tempo medio necessario per pagare le tasse è di 269 ore all’anno contro una media europea di 186. Se l’Italia si colloca al 126esimo posto al mondo per quanto riguarda il pagamento delle imposte, al 108esimo per l’esecuzione dei contratti e al 101esimo come capacità di accesso al credito.
L’Italia è un paese che ha problemi di competitività più che di corruzione e prima o poi sarebbe bene che qualcuno spiegasse che il mito dell’Italia corrotta più di Emirati Arabi, Bhutan, Botswana, Ruanda, Namibia, Georgia, Arabia Saudita, Ungheria, Ghana, Romania non regge alla prova dei fatti, a meno che per fatti non si intenda la percezione che si ha del fenomeno (indice di Transparency International) che notoriamente è influenzata più da come i mezzi di informazione descrivono il paese che dalle sue effettive condizioni di salute.
Una ricerca dell’Eurobarometro 2014 ha chiesto se negli ultimi 12 mesi l’intervistato sia stato oggetto di richieste o aspettative di tangenti. Aggregando le risposte, Eurobarometro ottiene una stima delle “vittime della corruzione”. Con una percentuale di vittime del 2 per cento, al pari di paesi come Francia, Spagna e Olanda e meno di Irlanda e Austria e a fronte di un dato medio Ue del 4 per cento, l’Italia risulta essere nel gruppo dei paesi meno corrotti in Europa. E più che trasformare i singoli casi di corruzione in casi simbolo del paese, sarebbe bene concentrarsi su altri problemi, come quelli messi perfettamente a fuoco, e per questo ignorati, alcune settimane fa dal rapporto Svimez, che ha fotografato bene lo stato di salute dell’Italia. “Il nostro è l’unico grande paese europeo in cui la dinamica della produttività è stata negli ultimi 14 anni complessivamente negativa. I fattori all’origine di questo differenziale negativo sono molti, sia di origine strutturale, legati ad alcune caratteristiche delle imprese, quali ad esempio la ridotta dimensione media, la specializzazione internazionale, la bassa spesa in R&S, sia relativi al sistema di regole e comportamenti nei mercati, come la regolamentazione non sempre efficiente, l’amministrazione e gestione dei servizi pubblici, quali ad esempio l’istruzione e la giustizia civile, sia infine legati alla dotazione di risorse infrastrutturali, anche relative alla diffusione dell’ICT, e di capitale umano”.
L’economia non corre come potrebbe non perché c’è un eccesso di liberismo ma perché c’è un difetto di produttività in quelle aziende piccole che si rifiutano di crescere e in quelle realtà spesso controllate da amministrazioni comunali che non riescono a imporre efficienza. Nonostante questo però i dati dell’Italia non sono da buttare via e descrivono un paese che cresce meno dell’Europa (più un per cento di pil nel 2016, contro 1,7 della zona euro) ma che comunque mostra segnali di non immobilismo. Secondo l’Istat, a gennaio si è registrato un incremento per le esportazioni (più 2,8 per cento) e per le importazioni (più 1,7 per cento) rispetto ai dati di dicembre. Su base annua, la crescita è stata del 19,7 per cento per l’export e del 22,3 per cento per l’import. La produzione industriale, nel 2016, è salita dell’1,6 per cento, miglior dato dal 2010. Negli ultimi due anni sono stati creati 968 mila nuovi posti di lavoro. E, ricorda ancora il rapporto Svimez, mentre nel 2015 l’economia mondiale ha rallentato, ridimensionando le attese sulla ripresa dell’Italia (che, pur uscendo dalla recessione dei tre anni precedenti, fa segnare performance deboli nel confronto europeo), per il Mezzogiorno è stato un anno positivo, ben oltre le previsioni. “In termini di Pil pro capite la crescita è stata dell’1,1 per cento nel Mezzogiorno, a fronte dello 0,6 per cento nel resto del paese. Il divario di sviluppo tra nord e sud in termini di prodotto per abitante ha quindi ripreso a ridursi: nel 2015 il differenziale negativo è tornato al 43,5 per cento rispetto al 43,9 per cento dell’anno precedente”. Questo diluvio di dati non è per dimostrare che la crisi naturalmente è finita – dal 2007 a oggi il divario cumulato con l’area dell’euro è aumentato di circa 9 punti percentuali, con l’Unione europea di oltre 11 punti – ma è per mettere insieme una serie di considerazioni e di dati che possono spiegare che l’Italia non è quel paese marcio, immobile, povero e impotente che viene descritto ogni giorno sui giornali e nei talk televisivi. E’ un paese che si muove ma che tende ad avere sfiducia verso il futuro anche a causa di un sistema politico che invece di combattere con la verità i professionisti della post verità accetta di giocare sullo stesso campo dei populisti perdendo tempo con i redditi di cittadinanza, le veline delle procure, le battaglie contro i vitalizi, quando per capire il paese in cui ci troviamo sarebbe sufficiente prendere un passaggio contenuto nell’ultimo rapporto sulla situazione sociale del paese, così si dice, messo giù dal Censis, e magnificamente ricordato sabato scorso su questo giornale da Giuliano Cazzola: “Rispetto al 2007, dall’inizio della crisi gli italiani hanno accumulato un incremento di cash pari a 114,3 miliardi di euro, ovvero superiore al valore del pil di un paese intero come l’Ungheria, mentre la liquidità totale di cui dispongono (818,4 miliardi di euro nel secondo trimestre 2016) è pari al valore di un’economia che si collocherebbe al quinto posto nella graduatoria del pil dei paesi Ue post Brexit, dopo la Germania, la Francia, la stessa Italia e la Spagna”.
Liberiamoci dall’agenda Tafazzi e forse l’Italia potrebbe ricominciare a crescere senza regalare il paese ai cialtroni a cinque stelle.