Vladimir Putin (foto LaPresse)

Il dramma del liberalismo occidentale

Giuliano Ferrara

Il liberalismo è senza armi e non può sperare che sia Putin a tirarlo fuori da guai. Perché occorre una riscossa delle classi dirigenti inermi per superare una crisi culturale. Gran libro di Edward Luce

Il liberalismo occidentale è a pezzi. Lo sostiene Edward Luce, corrispondente del Financial Times dagli Stati Uniti, in un libro che sarà pubblicato in traduzione italiana da Einaudi-Stile Libero. Luce è brillante, ha fatto buoni studi a Oxford, che interruppe per andare in gita a picconare, aveva vent’anni, il Muro di Berlino. Il suo liberalismo è temperato, non ama la variante Reagan-Thatcher, piuttosto predilige l’idea di progresso, un’antropologia positiva. Si è svegliato nell’America di Trump il 9 novembre 2016, a quasi trent’anni dalla “fine della storia” e dall’uniformazione presunta del mondo sotto le insegne della liberal-democrazia, e si è ricordato un invito a Mosca dall’Istituto Primakov, dal nome di un celebre ministro degli esteri e premier dell’epoca di Eltsin a cui Putin, che gli succedette come capo del governo e che quando Luce picconava il Muro stava a Dresda a capo del locale Kgb, attribuisce la qualifica di maestro. E’ andato a Mosca, Luce, ama le gite istruttive, si è lasciato alle spalle un presidente americano che ha adottato la retorica del Muro ed è stato aiutato da Putin, che ammira, e che al tempo del Muro lanciò un suo Monopoli con la T di Trump al posto della M, che poi fallì; e ha appreso, Luce, che il Congresso di Vienna (1815) della Restaurazione postnapoleonica era il fatto più citato dai russi a convegno, e che Putin aveva definito la caduta del Muro come “la più grande tragedia geopolitica del secolo”. Insomma, “la ritirata del liberalismo occidentale” è diventata, dopo tanta esperienza, un fatto da esaminare con lucidità mista a smarrimento in un pamphlet di duecento pagine.

 

L’autore è di quelli che desiderano capire bene che cosa sia successo. Non è un banale secchione, è un interprete intelligente della società americana e dell’occidente, possiede le nozioni essenziali alla bisogna. Ha una domanda per ogni cosa, e cerca le risposte. Compreso il perché dell’aumento dei suicidi e del consumo di oppiacei tra i left-behind, quelli lasciati indietro nella globalizzazione liberale dei mercati, o i forgotten men, i dimenticati a cui The Donald sta dando il ritiro dell’assicurazione sanitaria, molta deregulation guidata da Wall Street e altre cosette varie, compreso il riflesso del protezionismo ipotetico, che li indurranno presto, credo, a ricordare la grande promessa di mettere fine al “carnaio americano” che tritura l’uomo bianco non messicano, America First. Finirò di leggere il pamphlet sicuro di trovarci un sacco di cose interessanti, ma ho sempre pensato da semplificatore che le cose siano più facili da capire se l’indagine e la sociologia sono irrorate di una tesi precostituita in base ai fatti. Non i fatti alternativi, quelli che stanno diventando il politicamente corretto del nostro tempo pseudoapocalittico, i fatti e basta.

 

Il liberalismo, e quello scatenato dalla rivoluzione thatcheriana e reaganiana è l’unico di cui politicamente e storicamente oggi si disponga, ha cominciato la sua ritirata quando abbiamo cominciato (avete, hanno) a vergognarci della presa di Baghdad e dell’impiccagione di Saddam. Quando abbiamo cominciato a indulgere alla retorica della disuguaglianza e della vittimizzazione della classe media occidentale. Quando il liberalismo da un lato si è rivelato disarmato,  privo di un manifesto politico globalizzatore (per esempio il secondo discorso di George W. Bush per l’inaugurazione del mandato 2004-2008),  dall’altro ha dimenticato che un miliardo di dimenticati del terzo mondo erano stati riscattati dal loro stato di estrema povertà, con un costo che andava spiegato e che non è stato così alto come si dice o si vuol far credere. Quando si è perso nella censura di comportamenti umani e umanistici e ha incorporato una teoria demenziale dei diritti individuali che non ha alcunché di liberale (non devi parlare di donne negli spogliatoi, devi fare pipì dove ti porta il cuore, e Shakespeare era un machista: l’importante è volersi bene, la tenerezza come programma). Ecco, il risultato è Trump, e un’ondata di nazionalismo e becerismo anche in Europa, che alla fine solo un Dio ci può salvare, ma anche meno, spero.

 

Non solo Machiavelli aveva detto che “vissono Atene e Sparta per mill’anni armatissime e liberissime”, va bene, il segretario fiorentino era un mezzo delinquente della città reale. Ma anche Platone, che si occupava della città ideale, pensava che al vertice della stessa dovessero stare i Re-Filosofi e i guardiani, ai quali è dedicato quasi tutto il suo trattato sulla Repubblica. Le classi dirigenti sono questo, i guardiani, o dovrebbero esserlo. Si occupano di cultura, di educazione, di virtù, cioè di forza e di armi, e tengono in ordine più o meno razionale il dentro e il fuori degli stati, e se è per questo anche dei mercati, considerando un interesse generale che converge sistematicamente con l’interesse particolare degli individui composto e ricomposto in una struttura di segni e di significati che in genere non può prescindere dalla religione, come legame tra gli uomini e con il loro desiderio di infinito e di libertà che è detto talvolta anche Dio. Il liberalismo senza armi e senza bandiere e senza Dio non può avanzare oltre un certo orizzonte. Incontra l’islam, incontra il Congresso di Vienna, che segue la battaglia di Waterloo, incontra un dominio della forza che si esprime anche attraverso la massificazione coatta del linguaggio e della cultura, due concetti non incompatibili con la rete intesa come trappola.

 

Analizziamo finché vogliamo il progredire dell’automazione, delle tecnologie, di una spietata logica di sviluppo e concorrenza e competitività, tutto destinato a fare delle vittime sociali nei prossimi decenni. Avremo posto una parte della domanda e forse ottenuto una parte della risposta. Ma il liberalismo, almeno per chi non lo ha mai abbracciato ideologicamente, nelle sue conseguenze fatali, e per chi lo considera un pragmatismo illuminato e utile all’altezza della bassezza dei tempi (come dice il barone Compagna), una dimensione senza alternative se non peggiori di essa, può riprendere non dico a correre ma a camminare se ritrova i suoi guardiani. Che non si annoverano solo tra i conservatori. Madeleine Albright, democratica, segretario di stato americana con Bill Clinton, sistematrice dei Balcani in guerra, diceva, come ricorda Luce, che la parola multilateralismo ha troppe sillabe e finisce con un ismo. Ecco. Con Trump e i nazionalismi e becerismi europei il multilateralismo diventa un regressivo Congresso di Vienna senza nemmeno un Metternich a mettere ordine nel disordine mondiale, a meno di non affidarsi a Putin, il che mi pare francamente imprudente, con tutto il rispetto. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.