Unicredit e Intesa ancora alle prese con le doglie di Alitalia
Le due maggiori banche hanno spesso sostenuto “grandi affari di sistema” che però sono sempre più onerosi
[Dopo quasi 7 ore di riunione il Cda di Alitalia ha dato il via libera al piano di rilancio della compagnia 2017-2021, presentato dall'amministratore delegato Kramer Ball e verificato dall'advisor indipendente Roland Berger. Il piano verrà presentato domani all'esecutivo. Successivamente, i vertici di Alitalia incontreranno le organizzazioni sindacali. Il consiglio di amministrazione ha anche "cooptato Luigi Gubitosi quale nuovo membro del consiglio di amministrazione in sostituzione di Roberto Colaninno che ha lasciato il consiglio lo scorso febbraio, con l'intenzione condivisa unanimemente da tutti gli azionisti di conferirgli l'incarico di presidente esecutivo una volta approvato il finanziamento del piano"].
Roma. Sembrerebbe a prima vista che uno dei dilemmi più inquietanti per le maggiori banche italiane sia se ricapitalizzare o no Alitalia, il cui risanamento è praticamente impossibile. E’ questo il problema? No, non è solo questo. E’ in gioco il come far banca. Siccome tantissime imprese lamentano difficoltà a ottenere credito, non fa onore mettere altri soldi in una compagnia che li brucerà. Certo, è un pilastro del piano di ristrutturazione approvato nella sua sostanza dalla compagnia, si può dire che lo si fa per salvare posti di lavoro, o che si è obbligati a ricapitalizzare per non portare a perdita soldi messi in passato dissennatamente, sempre con l’alibi di un piano di risanamento che il Consiglio di amministrazione ha discusso. Accadde già nel 2005: il 10 ottobre l’allora amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, dichiarò che la banca era pronta a collaborare con la (vecchia) Alitalia per un aumento di capitale, purché ci fosse un “piano di impresa credibile e poliennale”. Due mesi dopo, nonostante qualche opposizione in ambito ministeriale, fu varato un aumento da 1,2 miliardi e Intesa vi partecipò da protagonista. Dopo poco, la compagnia fallì e la banca perse un sacco di soldi.
Dalla compagnia
dei "capitani coraggiosi" ai treni di Italo fino
agli aeroporti torinesi, Unicredit e Intesa
si sono impegnate
in partite differenti
ma con somme totali quasi identiche (336
e 367 milioni).
Ora Alitalia, di cui sono soci, è di nuovo
nei guai. Messina
e Mustier metteranno altri quattrini?
Quanto alla nuova Alitalia, dalla sua nascita nel 2009 fino al 2015, ha chiuso il bilancio consolidato sempre in rosso e ha accumulato perdite per 2 miliardi e mezzo. Il 2016 è andato peggio. Intesa Sanpaolo non ha mai cambiato linea. L’allora presidente del Comitato di gestione, Gian Maria Gros-Pietro, il 13 ottobre 2013 dichiarò che la banca aveva interesse a salvaguardare gli investimenti esistenti, che il suo mestiere non era fare il vettore aereo o altra attività industriale, ma che dentro Alitalia ci stava; non pensava di essere un azionista di lungo termine, che passare la mano era l’obiettivo a medio termine, ma per far questo bisognava che prima l’Alitalia non morisse, dunque bisognava ricapitalizzarla. Sul concetto di banca di sistema, il 12 novembre Gros-Pietro chiarì che Intesa Sanpaolo era dentro il sistema, che il vertice ne teneva conto, che il senso di responsabilità gli imponeva di non creare sconquassi. Andarsene rompendo tutto non era qualcosa che la prima banca italiana potesse fare.
Un mese fa, sul Foglio abbiamo dimostrato che la gestione economica perennemente deficitaria di Alitalia è dipesa dal fatto che la compagnia non ha mai perseguito economie di scala attraverso maxi-fusioni in cui diluirsi e scomparire, e non ha neanche snellito la struttura aziendale per divenire una low cost, così che oggi non è né carne né pesce. Anche per giustificare nuovi apporti di mezzi finanziari, il nuovo piano suggerisce di cambiare la compagnia un po’ e un po’, spaccandola in un grande operatore sul mercato estero e in una low cost su quello domestico, trasformandola metà in carne e metà in pesce, una nuova sirena incantatrice, ma meno romantica di quella di mare.
Per le banche è in gioco una svolta profonda, il farla finita con l’andazzo del passato, fatto di credito e finanza sostanzialmente regalati, anticamera di crediti incagliati, deteriorati, perdite patrimoniali.
I due soci principali di parte italiana sono ancora Unicredit e Intesa Sanpaolo, le maggiori banche nazionali. Sgombriamo subito il campo da equivoci: entrambe queste banche sono tanto grandi e solide che non hanno da temere da un punto di vista quantitativo. Infatti, su attività totali per molte centinaia di miliardi (a fine 2015, il gruppo Unicredit aveva 857 miliardi di attivo e quello Intesa Sanpaolo 673), le partecipazioni di minoranza estranee all’ambito finanziario e assicurativo erano pochissime (per 336 milioni in Unicredit e 367 in Intesa, meno dello zero virgola cinque per mille del corrispondente attivo). C’erano, però, due stranezze. Questi due importi (336 e 367) erano tra loro quasi uguali; le aziende beneficiarie navigavano talvolta in cattive acque ed erano potenti: Cai-Alitalia, Ntv-Italo, Tangenziale esterna di Milano, Sagat (Aeroporto di Torino), Sirti. Tanto per dire, anche Ntv-Italo dall’inizio dell’operatività nel 2013 ha sempre chiuso i conti in rosso, accumulando perdite per oltre duecento milioni.
Qualcuno potrebbe considerare queste operazioni tutte fatte in una logica di banca di sistema, potrebbe malignare che i governi le abbiano caldeggiate a una banca e all’altra in pari misura. Una tal interpretazione malevola sarebbe corroborata dalla notizia di qualche tempo fa, secondo cui Unicredit e Intesa costituirono una società per valorizzare congiuntamente partecipazioni difficili. Fortunatamente, pare che non se ne sia fatto più nulla.
Che oggi una svolta profonda sia in vista e si spezzi l’andazzo del passato, lo dimostrano i recenti propositi di Intesa e soprattutto il rinnovamento della guida di Unicredit. Il 4 marzo scorso, rispondendo a una domanda su Alitalia l’amministratore delegato di Intesa, Carlo Messina, ha tracciato una linea di demarcazione tra l’attività “core” della banca, consistente nell’erogare crediti, e l’attività impropria (da evitare) consistente nell’esser partner della compagnia aerea. Non essere partner, come dice la parola stessa, significa una cosa sola: dismettere la partecipazione o quanto meno non rivitalizzarla. Speriamo che questa risposta di Messina non venga smentita. Ma la novità più interessante è costituita dal nuovo amministratore delegato di Unicredit, Jean Pierre Mustier, non solo perché è meno vicino al sistema di quanto lo siano i suoi omologhi italiani, ma perché dimostra una sensibilità agli aspetti reddituali delle operazioni della banca molto spiccata. Almeno fino a prova contraria, perché sul tavolo delle due banche stanno arrivando operazioni ardite a favore di Rcs, editore del Corriere della Sera, e de Il Sole 24 Ore, il principale quotidiano economico italiano in gravi difficoltà e bisognoso di una cospicua ricapitalizzazione.
*economista e professore di Economia applicata alla Sapienza, Università di Roma