Oltre la diatriba manichea sui voucher rileggendo Biagi
Ricordare Marco Biagi significa riconoscere che le sue sane provocazioni sono valide per sfide ancora attuali
Roma. Il caso ha voluto che proprio nella settimana, quella appena passata, in cui si è ricordata la figura e l'opera del prof. Marco Biagi il tema del lavoro sia stato prepotentemente al centro del dibattito pubblico. L'evoluzione della vicenda voucher, conclusasi con la repentina e imprevista scelta del governo di abrogare interamente il lavoro occasionale, è andata di pari passo con le commemorazioni dello studioso ucciso barbaramente dalle Brigate Rosse il 19 marzo di quindici anni fa. Un anniversario che ha visto la novità di un riconoscimento bipartisan dell'opera di Biagi, riunendo allo stesso tavolo, come è accaduto al Senato mercoledì mattina, soggetti che negli anni avevano avuto posizioni contrastanti rispetto alla riforma che porta il suo nome. Ma allo stesso tempo un anniversario che sembra consegnarci un dibattito sul mercato del lavoro ibernato, quasi che ci trovassimo ancora all'inizio del nuovo millennio.
Lo scontro, invero strumentale, sui voucher ha riproposto contrapposizioni ideologiche dialetticamente aspre e senza sconti, riproponendo una immagine del mondo del lavoro o bianca o nera che, se già era vecchia quindici anni fa, oggi sembra totalmente obsoleta. Oltretutto si è riproposta, come tipico dei momenti più sconfortanti della storia del nostro paese, la dinamica di un sistema politico che, in nome del timore di una delegittimazione, rinuncia a sostenere le proprie idee più volte espresse, cedendo ad un ricatto che più che una vittoria di qualcuno è una sconfitta di tutti.
Sconfitta perché si è persa ancora una volta l'occasione, che paradossalmente il referendum consentiva, di analizzare a fondo quali sono le urgenze del mercato del lavoro di oggi. Così come per Biagi il problema non era certo lo scontro sull'articolo 18, oggi la trasformazione del lavoro in atto, guidata da epocali cambiamenti tecnologici, demografici e ambientali, sembra una montagna insormontabile di fronte al piccolo sassolino dei buoni lavoro. Eppure neanche in questo caso sembra si sia riusciti ad andare oltre lo scontro sterile. Per questo l'occasione della memoria di Biagi può essere fertile solo se il richiamo alla sua figura non si limita al ricordo sentimentale di quello che è stato, ma se va a fondo dei nodi che lui stesso sottolineava.
E così emerge con chiarezza e forza come il mercato non possa essere oggi rappresentato dal netto dualismo tra lavoro subordinato e lavoro autonomo e per questo occorrerebbe "rinunciare ad ogni ulteriore intento definitorio e classificatorio di una realtà contrattuale in rapido e continuo mutamento". La vera sfida di oggi, sorprendentemente ancor più attuale di quindici anni fa, è quella di "predisporre un nucleo essenziale e abbastanza limitato di norme e di principi inderogabili" comuni a tutti i rapporti di lavoro. Questo è possibile solo se si abbandonano "vecchi schemi e paradigmi consolidati che, oltre a non corrispondere più alla realtà che si intende disciplinare, frenano lo sviluppo del tessuto produttivo e pregiudicano l’efficienza del mercato del lavoro". Una provocazione del genere, che da sola basterebbe a sprigionare una nuova stagione di riformismo, supera le strette e asfissianti mura del dibattito sui voucher, ma le supera senza cedere a ricatti e ultimatum, ma con uno sguardo nuovo sul futuro.
Non si tratta certamente di tirare per la giacchetta la figura di Biagi, all'interno di un impossibile e a volte poco rispettoso gioco ad ipotizzare "cosa avrebbe pensato lui". Ma di cogliere il metodo e il pensiero facendo lo sforzo, che può spettare solo ai protagonisti della propria epoca, di calarlo nella realtà dei fatti di oggi.