Uber e taxi, lezioni dall'estero per liberalizzare il settore
Mentre i tassisti confermano lo sciopero, il governo apre alle piattaforme digitali e alla sharing economy. Spunti da Estonia, Portogallo e Londra, secondo l'Istituto Bruno Leoni
Al termine di un incontro congiunto tra ministero dei Trasporti, ministero dello Sviluppo economico e associazioni di categoria dei taxi, forse, chi si batte per la concorrenza nel settore dei trasporti non di linea ha ancora speranza. Mentre i tassisti confermano lo sciopero nazionale del 23 marzo (dalle 8 alle 22), il governo presenta ai sindacati di categoria un decreto interministeriale di cinque punti in cui, tra le altre cose, si apre alle piattaforme digitali per la prenotazione dei servizi di mobilità, a patto che paghino le tasse in Italia. Potrebbe essere, ma in questi casi è bene usare il congiuntivo, l’inizio di un’apertura vera alla realtà della cosiddetta “sharing economy”, ancora largamente ignorata o, peggio, messa al bando.
Se volesse davvero liberalizzare il settore, l’Italia potrebbe prendere spunto dall’Estonia, dal Portogallo, o da Londra. A suggerirlo è l’Istituto Bruno Leoni, think-tank liberale con sede a Milano, che giusto oggi ha pubblicato il focus “Uber, taxi e trasporto pubblico non di linea. Suggerimenti dall’estero”, a cura di Paolo Belardinelli e Giuseppe Portonera.
Partendo dalla segnalazione dell’antitrust di un paio di settimane fa, con cui parlamento e governo sono stati formalmente invitati a riformare il settore della mobilità non di linea (taxi e Ncc), gli autori del focus analizzano quanto già fatto in merito dai governi nazionali di Lisbona e di Tallinn, oltre che dalla città di Londra.
Ciò che differenzia il sistema Ncc italiano da quello in vigore nella capitale inglese, per esempio, è l’obbligatorietà di disporre di un veicolo. “È evidente che porre come condizione per svolgere servizio di Ncc la disponibilità di una bella macchina, che sia di proprietà o che sia in leasing, come avviene in Italia, restringe di molto il bacino di coloro che effettivamente potrebbero essere in grado di operare in questo settore” – scrivono Belardinelli e Portonera – restringendo così l’offerta, quindi la concorrenza, quindi i benefici finali di cui godono i consumatori.
L’approccio più radicale nei confronti di Uber, però, secondo i ricercatori dell’Ibl viene dall’Estonia che, dopo l’indipendenza dall’Unione sovietica nel 1991, ha conosciuto una rinascita in senso liberale senza eguali in Europa. L’Estonia è infatti stato il primo paese Ue a impegnarsi formalmente a riconoscere e regolamentare i servizi dell’azienda di San Francisco. Soprattutto sul piano fiscale, dove si riscontrano le controversie maggiori. Gli autisti Uber attivi nella repubblica baltica – dopo l’approvazione di una legge proposta dal governo – potranno infatti “aderire a un sistema in cui la piattaforma invia direttamente i dati fiscali (a partire da quelli del reddito dichiarato) all’apposito ufficio governativo che si occupa delle imposte, dimodoché questi vengano immediatamente aggiunti alla loro dichiarazione dei redditi”. Con una pubblica amministrazione ultra digitalizzata come quella estone, quindi, l’evasione fiscale paventata dai tassisti sarà pressoché impossibile.
Il Portogallo è, dei tre paesi studiati, quello che ha il rapporto più “travagliato” con Uber, avvicinandosi all’impostazione “anti disruption” che in Italia va per la maggiore. Proprio per questo, è il paese che ci riserva la lezione più utile. “Il caso portoghese – si legge nel focus – è forse il più interessante per affrontare (e risolvere) la questione della regolamentazione dei servizi che attraverso piattaforme digitali mettono in connessione autisti non professionisti e domanda finale (come UberPop)”. Il governo portoghese ha infatti proposto l’istituzione di un registro pubblico delle piattaforme online come Uber, cui si affiancano pochi, precisi limiti per gli autisti e le piattaforme stesse.
Anche in questi tre paesi, va detto, i tassisti hanno opposto non poca resistenza ai cambiamenti introdotti sul mercato da parte di Uber, ma le riforme apportate dai governi “dimostrano che affrontare e risolvere il processo d’aggiornamento della cornice legislativa, tenendo conto del mutato quadro sociale, è possibile, usando la giusta dose di attenzione e fermezza”.
Se l’Italia decidesse di seguire questa linea, tra l’altro, terrebbe fede a quanto indicato dalla Commissione europea nelle sue linee guida sulla sharing economy pubblicate a giugno scorso, in cui viene esplicitato che il divieto tout court delle attività economiche in questione dovrebbe avvenire solo in casi estremi. Forse anche più importante, darebbe valore alla sentenza della Corte costituzionale del 15 dicembre 2016, in cui si chiede un intervento legislativo che non neghi l’esistenza del fenomeno Uber et similia, ma lo regolamenti nel rispetto della libertà economica privata sancita dall’articolo 41 della Costituzione.