Colpa dell'euro? No
Le cause che bloccano l’economia hanno radici antiche, esaltate da nuovi tic. Il caso Rockhopper
Roma. Nell’opinione pubblica s’è diffusa la spiegazione fallace secondo cui i risultati non lusinghieri dell’economia italiana sono il prodotto dell’ingresso nella Comunità economica europea di cui si celebra la fondazione in questi giorni a sessant’anni dai trattati di Roma. Gli andamenti dell’economia, che non cresce a tassi accettabili in quanto inferiori alla media continentale, derivano tuttavia dall’incapacità di adattarsi ai cambiamenti che il progetto europeo – pur con i suoi difetti congeniti – richiedeva da parte dell’imprenditoria, della finanza e delle istituzioni politiche, la cui efficacia d’esecuzione è molto inferiore rispetto ai governi di Germania, Francia e Spagna, secondo la Banca mondiale (2014). Di conseguenza se per decenni la popolazione italiana ha mostrato più d’altre uno spiccato senso d’appartenenza all’Europa, ora si colloca tra quelle più scettiche e inclini a garantire il suffragio a partiti, Lega e Movimento 5 stelle, che capitalizzano consenso su un generico moto protestatario verso l’Europa e l’euro in quanto “origine di tutti i mali”.
In realtà i guai economici derivano in somma parte dalla difficoltà di adeguarsi alla globalizzazione dei mercati e alla modernità tecnologica e, specularmente, all’ostinazione di replicare un tipo anomalo di capitalismo, da “caso italiano”, secondo la definizione usata dal politologo Giorgio Galli. Ovvero un’organizzazione economica differente dal capitalismo tradizionale (iniziativa privata integrata dall’intervento pubblico secondo le esperienze occidentali) che però conserva gli aspetti più deteriori del sistema capitalistico (speculazione in una Borsa asfittica e sprechi produttivi) uniti a perversioni tipiche delle economie pianificate (invadenza del potere politico e insufficienti, o male allocati, stimoli all’innovazione). Si sono dunque verificati e continuano a verificarsi i fenomeni già criticati da Luigi Einaudi per cui s’insiste a mantenere in vita “baracconi” industriali invocando la difesa dei posti di lavoro. Così certi avventurieri, paragonati a “sceicchi” o “cavalieri bianchi”, ottengono la solidarietà dei sindacati promettendo mirabilie.
Recente è il caso della siderurgia ex Lucchini a Piombino che prima doveva essere salvata da un sedicente imprenditore d’opaca fama, tal al Habahbeh, e poi da un imprenditore di chiara fama, l’algerino Issad Rebrab, ma senza capitali propri sufficienti a realizzare un progetto industriale vago, e ora langue tra le proteste degli operai che lunedì arriveranno nella capitale. Oltre a una burocrazia che ostacola l’attività d’impresa a livelli greci e una pressione fiscale eccezionale, a ingessare il progresso economico ci pensa da un decennio l’accentuazione della sensibilità ambientalista che, unita ai sistemi di comunicazione di massa online (i social network), amplifica le proteste popolari e le lungaggini burocratiche minando iniziative industriali e infrastrutturali d’ogni tipo. Elevata è l’ostilità verso l’industria energetica, interessata dalla metà delle 342 contestazioni rilevate sul territorio nazionale dal Nimby Forum nel 2015.
Paradigmatico è il caso della Rockhopper che dopo proteste e dispute decennali ha rinunciato a sfruttare un giacimento di gas e petrolio al largo delle coste abruzzesi. Per via dei costi dovuti ai ritardi subiti (a febbraio la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il provvedimento della Regione Abruzzo che due anni fa aveva esteso l’area di un parco naturale dalla terra fino al mare al fine di bloccare l’opera) e di una normativa cangiante (il divieto di estrazione entro 12 miglia dalla costa è stato reintrodotto a fine 2015 per volere del governo Renzi, che l’aveva appena tolto, perché così sperava di scongiurare il referendum contro le perforazioni a mare, poi realizzato e perso dai “No Triv”) Rockhopper ha avviato un arbitrato internazionale contro lo stato italiano chiedendo un risarcimento da circa 2 milioni di dollari. Non è un buon biglietto da visita per gli investitori esteri. Già nel 2013, nella rubrica “Segreti di Borsa” sul Times, Gary Parkinson parlava del caso dell’azienda, che all’epoca si chiamava MedOil, in questi termini: “Difficile da credere ma vero. Una società britannica, gestita dignitosamente, sostenuta da investitori rispettabili che vogliono mettere i propri soldi in un paese in gravi difficoltà finanziarie, nel cuore dell’Europa, viene contrastata a ogni passo. […] Prima di investire su azioni di società che sono quotate sull’azionario a Londra (come MedOil, ndr), ma che conducono le loro operazioni negli angoli più caldi del mondo, è buona idea valutare ciò che gli addetti ai lavori definiscono il ‘rischio politico’. E questo va valutato quando si intraprendono attività in alcune regioni dell’Africa, in alcuni paesi dell’America del sud, o in Italia…”. E’ tutta colpa dell’euro?