Mario Draghi (foto LaPresse)

Che ruolo gioca Draghi nella partita chiave del rinnovo di Bankitalia

Stefano Cingolani

A ottobre finisce il mandato. Ignazio Visco sogna il rinnovo, Padoan gioca le sue carte, Angeloni ed Enria sono gli outsider, Rossi è la continuità. La spinta di Renzi

Roma. L’austerità ha impedito la crescita, peggiorando così il rapporto tra debito pubblico e prodotto lordo? Ma quale austerità. Ignazio Visco estrae un foglietto dalla tasca e comincia a snocciolare le cifre sui deficit di bilancio negli anni in cui la malvagia filosofia tedesca avrebbe messo in ginocchio l’Europa. Chi ha rispettato i parametri di Maastricht si conta sulle dita di una mano. L’Italia alla fin fine ha fatto meglio di Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda e persino della Francia. Il debito pubblico è peggiorato ovunque. Difficile sostenere, dati alla mano, che la politica fiscale sia stata davvero restrittiva.

  

È il tardo pomeriggio di martedì 28 marzo e il governatore della Banca d’Italia si trova nella sede della casa editrice Laterza a discutere il libro dell’economista Andrea Boitani, docente alla Cattolica di Milano, che vuol smontare “Sette luoghi comuni sull’economia” (questo l’invitante titolo). Pacato e professionale, su debito, competitività, unione bancaria, euro, il ruolo della Germania, Visco mostra che anche Boitani non sfugge a un altro senso comune, quello prevalente nella sinistra. Il governatore non nega gli sbagli commessi in Europa, anzi se la prende con l’errore capitale, quello di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy nella famigerata passeggiata di Deauville il 18 ottobre 2010, alla fine della quale annunciarono che gli stati possono fallire trascinandosi dietro le banche. Il governatore di politica bancaria non vuol parlare per correttezza istituzionale, si lascia solo sfuggire un sospiro sulla commissione parlamentare d’inchiesta che sta per partire. Ma chi ascolta ha la sensazione che Visco non voglia proprio diventare un capro espiatorio. Anzi.

Il suo mandato scade a ottobre, però i tamburi rullano da tempo. Visco venne proposto dal governo Berlusconi in quel fatal 2011. Il decreto, come vuole la legge, fu promulgato da Giorgio Napolitano perché al presidente della Repubblica spetta la parola decisiva. Si trattava di sostituire Mario Draghi nominato presidente della Bce e l’ex governatore avrebbe voluto promuovere il direttore generale Fabrizio Saccomanni. Tra i papabili c’era anche Vittorio Grilli direttore generale del Tesoro, gradito al ministro Tremonti. Un terzo candidato forte era Lorenzo Bini Smaghi membro del board della Bce. Prevalse la soluzione interna, ma con Visco, numero tre nella linea di comando. Quattro governi sono passati sotto i ponti e Paolo Gentiloni si trova in una situazione delicata. Matteo Renzi vorrebbe cambiare: tra lui e Visco non c’è mai stato feeling, ma soprattutto non vuole finire nel frullatore bancario.

La commissione d’inchiesta rischia di essere una vera ordalia, palestra di populismo per i pentastellati e di battaglia partigiana per la destra. Tra Banca Etruria e Mps, Renzi ha già subito parecchi colpi. E molti ne ha presi anche la Banca d’Italia. Il leader del Pd conta ancora, come si è visto con le nomine nelle partecipazioni statali, ma deve mediare con Gentiloni, continuista per necessità e per vocazione, e soprattutto ha di fronte Sergio Mattarella. Il presidente è uscito dall’ombra del Colle e moltiplica i suoi interventi. Per lui la Banca d’Italia resta uno snodo istituzionale da sottrarre alla politica e alle brame di partito.
Candidati ad alta caratura professionale ce ne sono, interni ed esterni. Il gioco dei nomi è persino meno accurato dei sondaggi d’opinione, tuttavia è difficile contenere il cicaleccio. C’è il direttore generale Salvatore Rossi, scrittore facondo e ottimo comunicatore. All’estero, ma nella stessa famiglia, ci sono Ignazio Angeloni membro del consiglio della Bce al quale è affidata la vigilanza bancaria e Andrea Enria che guida l’Autorità bancaria europea. Entrambi si sono formati in Banca d’Italia come del resto Bini Smaghi, oggi presidente della Société Générale una delle prime banche francesi ed europee. E poi c’è il ministro del Tesoro. Sì, il circo politico-mediatico ha messo in pista anche Pier Carlo Padoan (spinto da Renzi) che non sta passando un bel momento, stretto tra la pressione del Pd e la mannaia di Bruxelles.

Mai un ministro (e per di più del Tesoro) è diventato subito governatore. Guido Carli, che era al commercio estero, si dimise un anno prima e fu fatto direttore generale nel 1959. Una foglia di fico? Forse, i giuristi consultano già le pandette. Ma dietro s’intravede una filigrana politica: senza punire Padoan che non lo merita, si potrebbe liberare una posizione chiave in vista delle elezioni, da occupare non più con un tecnico, ma con un politico. Rumori fuori scena, ad alto volume, che trascurano Mario Draghi. Formalmente il presidente della Bce non può fare nulla, nessuno però si metterebbe contro l’uomo che nel 2012 ha salvato l’euro e l’Italia.

  
Visco non ha intenzione di mollare. Nulla vieta la sua conferma per altri sei anni. Del resto, ha deciso di potenziare anche la struttura della comunicazione, introducendo nuove figure professionali. Massima trasparenza e niente più langue des bois che potremmo tradurre con banchitaliese. Le voci entrano anche a palazzo Koch dove si sta già lavorando alla relazione generale da presentare all’assemblea del 31 maggio, una fotografia del paese che nessuno può mai ignorare. E c’è chi immagina che nelle considerazioni finali, le ultime di questo mandato, Visco parlerà chiaro. Proprio come al seminario in casa Laterza.