Tra nido e bonus, al rilancio della demografia in Italia ci pensano le aziende
Aiuti alle dipendenti che diventano mamme. Esempi virtuosi
Il welfare aziendale è il nuovo credo laico dell’imprenditoria. Il suo jolly sono le donne. Ancor più del bollino family friendly, comincia a contare quello woman friendly e sembra che la corsa ad aggiudicarselo sia partita persino in Italia, dove lo stato arranca, ma le aziende volano. Martedì, l’Università Luiss ha ospitato la presentazione del secondo rapporto “Welfare Index Pmi”, che analizza l’impatto delle politiche di welfare aziendale sulla produttività di piccole e medie imprese (nel comitato guida ci sono, tra le altre, Generali Italia e Confindustria). Al terzo posto del premio annesso, è arrivata la vinicola pavese “Conte Vistarino” che fornisce ai dipendenti pullman gratuiti per accompagnare i figli da casa a scuola e viceversa. Il primo posto è stato conquistato dalla Fungar di Loredana Alberti e Maddalena Zortea, azienda riminese leader nella coltivazione di funghi, dove le donne sono l’80 per cento del personale e a tutte sono garantiti orari flessibili di lavoro, periodi di maternità più lunghi di quelli previsti dalla legge e assistenza nella ricerca di asili.
Il nido aziendale è, tra le pratiche di welfare woman friendly, una delle più collaudate. I dati riportati lo scorso anno da ActionAid, nello studio “Sulle spalle delle donne”, rilevano che il settore privato, incluso quello sovvenzionato dal pubblico, ha svolto un ruolo suppletivo. Senza aspettare che il riordino del ciclo della scuola dell’infanzia renda anche l’asilo nido un diritto, come previsto dalla Buona Scuola, alcune aziende se ne sono dotate e, di più, hanno allargato l’accesso anche a figli di utenti esterni, offrendo un servizio di cui può beneficiare la comunità intera. Nel 2001, nello stabilimento di Vallese di Oppeano, Calzedonia inaugurò il suo primo nido aziendale, “I cuccioli”: c’erano cinque bambini, che in quattro anni diventarono cinquanta (oggi si contano, nei pressi dell’azienda, quattro strutture, aperte a tutti).
Una richiesta esorbitante, soprattutto se si pensa che il Veneto è una delle regioni che più si avvicinano allo standard stabilito dal Protocollo di Lisbona (avere il 30 per cento dei bambini fra i tre e i sei anni accolti in asili nido). Dopotutto, tra il 2004 e il 2012, la spesa totale per nido (dati ActionAid) è cresciuta da 1.035 milioni di euro annui a 1 miliardo e 567 milioni. Accoglie tutti anche il nido aziendale di Artsana Group, “Il villaggio dei bambini” (attivo dodici mesi l’anno). Interaziendale (Pirelli, Deutsche Bank AG, Università Bicocca, Pirelli Real Estate spa), invece, è il “Bambini Bicocca”. E, alla faccia del free you eggs, free you carreer propagandato in Silicon Valley, l’Itcc di Genova adotta la regola stop the clock for maternity, che impone il prolungamento, dopo il termine di scadenza, dei contratti a tempo determinato per le ricercatrici che rimangono incinte. Come va, invece, nei grandi colossi? La Ferrero, in questi giorni criticata per aver messo in commercio uova pasquali sessiste (principesse nelle sorpresine “per lei” e gadget di Star Wars in quelle “per lui”), offre contratti integrativi che prevedono sostegni a maternità e paternità, sussidi di studio, consulenza pediatrica gratuita per i figli dei dipendenti, part-time flessibili. Il nido aziendale si trova nell’ex Filanda, a pochi metri dallo sportello Ferrero Pass, che offre servizi di disbrigo di commissioni quotidiane. Nel 2012, la Tod’s emise bonus di rimborso spese scolastiche destinati ai dipendenti genitori: 1.400 euro lordi ciascuno.
Luxottica e Ferrari offrono benefit che coprono spese mediche, scolastiche, di baby sitting e trasporto. Vodafone Italia integra lo stipendio delle neo-mamme fino al 100 per cento nei primi quattro mesi di congedo e consente loro di richiedere un part-time fino al trentesimo mese di vita del bambino. La nuova attenzione al benessere delle dipendenti e il sostegno alla conciliazione casa/lavoro, è spinta anche dalla consapevolezza che la maternità aumenta il valore e la produttività: è un’acquisizione recente, che segna un passaggio culturale epocale. Da handicap, quindi, la gravidanza e la maternità prendono a trasformarsi in fattore di competitività: mettendo insieme gli studi internazionali che lo dimostrano, Riccarda Zezza, fondatrice del coworking Piano C (Milano) – luogo munito di servizio co-baby, per le mamme freelance – ha creato, ormai qualche anno fa, il programma “Maternity is a Master”, un corso che insegna alle aziende come valorizzare il lavoro delle dipendenti rientrate dalla maternità. In una videointervista a questo giornale, la scorsa settimana, Roberto Brazzale, imprenditore a capo del marchio caseario “Alpi”, ha spiegato che la ragione del Baby Bonus (uno stipendio di 1.500 euro in più per i neogenitori) che, a partire da marzo, elargisce ai suoi dipendenti, ha soprattutto un valore simbolico: “Il messaggio che vogliamo lanciare è: fate i vostri progetti, l’azienda si adeguerà”. Sul sito brazzale.com si legge: “Il sostegno alla maternità deve arrivare da uno sforzo corale, nel quale le aziende devono fare la loro parte”.
A febbraio scorso, si scrisse per giorni di Samuele Schiavon di The Creative Way, che aveva assunto a tempo indeterminato Martina Camuffo, trentaseienne al nono mese di gravidanza. Renzi lo chiamò per congratularsi. Susanna Camusso dichiarò che quel caso avrebbe dovuto diventare la norma. La strada è ancora lunga, ma è ormai imboccata la strada verso la womenomics (l’Economist, nel 2006, coniò il termine per dire che le donne sarebbero state il motore dello sviluppo mondiale futuro). Serviranno molte Ferrero, moltissimi Brazzale. Se, poi, si sbloccassero anche i Bonus Bebè del governo (800 euro a tutte le mamme), non sarebbe male, ma il guazzabuglio in cui sono finiti non lascia ben sperare: neanche eserciti di Beyoncé imbufalite potrebbero nulla contro la burocrazia italiana. Per fortuna che il liberismo c’è.