Perché l'Eni di Descalzi torna al primo amore del gas di Ravenna
In Emilia ci sono 976 aziende, con circa 10 mila lavoratori diretti, che operano nell’oil&gas
Roma. E’ raro che in una grande società il vertice venga confermato al termine del primo mandato mentre sono in corso un forte ridimensionamento e una difficile ristrutturazione. Vuol dire che il socio di controllo oltre a essere soddisfatto dell’andamento della gestione, ne condivide la strategia. Ieri all’Assemblea di Eni, controllata dal ministero dell’Economia, la nomina di Claudio Descalzi ha significato stabilità dinamica e un ritorno al primo amore, vedremo perché. L’Eni nacque nel ’53 quando Enrico Mattei, invece di liquidare l’Agip come richiestogli, incoraggiato da ritrovamenti di metano in alcuni pozzi in Pianura Padana, rilanciò una politica degli idrocarburi indipendente dalle major americane e diede vita al secondo ente a partecipazione statale (dopo l’Iri). Per trent’anni l’Eni crebbe, aggiungendo all’ambito petrolifero una serie di attività (tessili, metallurgiche) acquisite per far piacere a imprenditori amici del mondo politico che tutelava l’autonomia dell’ente. Negli anni 80 Eni esagerò con simili acquisizioni, nel carbone, nel rame e nella chimica: una patologia.
Tutto ciò sfociò in tragedie private e perdite ciclopiche. A mitigarne l’impatto negativo sul bilancio consolidato ci pensava una seconda patologia: gli utili pazzeschi generati dalla gestione del gas in monopolio. Negli anni 90, trasformata in società per azioni di diritto privato, Eni cominciò una silenziosa opera di allineamento strategico alle grandi compagnie americane, fruttuoso anche grazie a una impronta modesta e parsimoniosa della gestione. Nel decennio scorso, i governi di centrodestra e di sinistra affidarono di fatto all’Eni un nuovo compito improprio: l’aziendalizzazione della politica estera. In conseguenza di ciò, da un lato il ministro degli Esteri divenne non più indispensabile, dall’altro le trattative tra Eni ed esponenti politici di altri paesi diventarono delicate e penalmente pericolose. Nel primo triennio del suo mandato, il ridimensionamento, la potatura e il riaggiustamento del gruppo guidato da Descalzi sono stati tremendi. Eni ha ceduto la rete gas di Snam alla Cassa depositi e prestiti, ha deconsolidato la Saipem, ha pudicamente chiuso e ha tentato di vendere la vecchia chimica residuale e deficitaria, ha proseguito nel ridimensionamento della raffinazione, è tornata alla vocazione originaria di impresa globale competitiva nella produzione ed esplorazione di idrocarburi. Dal 2011 al 2016, il fatturato netto consolidato s’è dimezzato, da 110 a 56 miliardi, l’organico è sceso ancor di più, passando da 79 mila unità (40 per cento in Italia) a 33 mila (60 per cento in Italia).
Il minor impatto occupazionale in Italia viene dal fatto che la Saipem operava quasi solo all’estero, ma ciò ha comportato la perdita di internazionalità del gruppo. Il flusso annuo di investimenti tecnici si è mantenuto quasi invariato, da 11 a 9 miliardi, ma di questi nel 2016 soltanto un miliardo è stato speso in Italia, contro 5 in Africa e 2 in Asia. Il risultato operativo, cioè l’utile della gestione industriale, è crollato da 19 miliardi nel 2011 a 2 miliardi nel 2016. In questo quadro, il piano 2017-2020 prevede investimenti tecnici per 31,6 miliardi, corrispondenti a un flusso medio annuo di poco meno di 8 miliardi, contro i 9 del 2016. Di questi, oltre 2 miliardi in attività di sviluppo e mantenimento degli asset nell’offshore ravennate, in Emilia Romagna, territorio che ha maggiormente difeso l’attacco al settore – poi sventato – prodotto del referendum contro le perforazioni in mare del 2016. Lì ci sono 976 aziende, con circa 10 mila lavoratori diretti, che operano nell’oil&gas, come ha notato ieri in Assemblea il consigliere regionale Gianni Bessi (Pd), difensore degli interessi dei lavoratori del settore. Un ritorno al primo amore, dunque, per l’Eni di Descalzi. Serve però che tutto il paese ritrovi lo slancio imprenditoriale e amministrativo degli anni 50.