Il rischio protezionista
Potremmo passare da un processo di globalizzazione accelerato a una deglobalizzazione rapida. È meglio non sottovalutare le guerre tariffarie. Spesso sfociano in conflitti militari
Il World economic outlook (il Weo, per gli addetti ai lavori) del Fondo monetario internazionale pubblicato ieri ci dà finalmente qualche buona notizia, ma anche parecchi motivi per essere preoccupati. Il pil mondiale, al netto dell’inflazione, è previsto aumentare quest’anno del 3,5 per cento, il più alto tasso di crescita reale degli ultimi cinque anni. Una piccola ulteriore accelerazione (al 3,6 per cento) è prevista per il 2018. Non si tratta del boom economico pre 2008, quando i tassi di crescita dell’economia mondiale oscillavano tra il 4 e il 5 e mezzo per cento, ma quei tassi erano insostenibili e finirono per portarci alla crisi del 2008-09. Meglio non esagerare quindi. Gli economisti del Fmi sono però, come sempre, guardinghi. Ci dicono che c’è molta incertezza e che i rischi sono “tilted to the downside”: prevalgono quelli verso il basso, il che significa che è più probabile un risultato peggiore di quello previsto rispetto a uno migliore. Questo prevalere dei rischi verso il basso è ormai diventato un cliché (l’ultima volta che il Fondo ha detto che prevalevano i rischi verso l’alto è stato nel maggio 2000, diciassette anni fa, fra l’altro poco prima dell’esplosione della dot-com bubble, con poco tempismo). Ma stavolta il Fondo ha ragione a dire che ci sono nuvole all’orizzonte. Il mondo nel suo complesso cresce, ma in modo diseguale. Il problema non è tanto che i paesi avanzati crescono meno di quelli emergenti e più poveri. E’ normale e auspicabile che il divario di reddito si riduca: è parte del processo per cui decine di milioni di persone sono uscite dalla povertà nell’ultimo decennio. Il problema è che i paesi avanzati crescono meno non solo dei paesi emergenti, ma anche del loro stesso passato.
Negli ultimi cinque anni il tasso di crescita reale dei paesi avanzati è stato intorno all’uno e mezzo per cento, più o meno la metà di quello dei quarant’anni precedenti la crisi del 2008-09. Inoltre, all’interno dei vari paesi avanzati, cresce la diseguaglianza. Ormai è cosa nota: il reddito dell’uno per cento più ricco della popolazione americana rappresenta oltre il 20 per cento del reddito totale, mentre nel 1980 rappresentava solo il 9 per cento. Queste due tendenze, minore crescita e maggiore diseguaglianza nei paesi avanzati, comportano dei rischi significativi per il futuro.
Il Weo si sofferma soprattutto sul rischio che tali tendenze portino al protezionismo, a un rinchiudersi dei paesi in se stessi, rifuggendo dalla collaborazione internazionale. E’ un rischio reale. Potremmo passare da un processo di globalizzazione accelerato a una deglobalizzazione rapida. Credo sia vero che la globalizzazione sia avanzata a un passo un po’ troppo rapido, con conseguenze anche poco piacevoli per parte della popolazione dei paesi avanzati. Il Weo si sforza di dimostrare, attraverso strumenti econometrici, che l’aumento della diseguaglianza nei paesi avanzati non è dovuto tanto alla globalizzazione, quanto alla tecnologia. Insomma, è il progresso tecnologico che fa risparmiare lavoro e avvantaggia il capitale, non l’ingresso sul mercato dell’economia globalizzata di centinaia di milioni di cinesi o indiani. Non sono del tutto convinto: nei primi ottant’anni del secolo scorso un incredibile progresso tecnologico è stato accompagnato da una distribuzione del reddito più egualitaria. Quello che è davvero cambiato negli ultimi trent’anni per effetto della globalizzazione è l’aumento della forza lavoro rispetto al capitale. Questi effetti indesiderati della globalizzazione possono però essere corretti senza rigettare i vantaggi che derivano dal commercio con l’estero (per esempio attraverso un maggiore coordinamento delle politiche economiche tra paesi, comprese le politiche di tassazione internazionale). Il rischio è invece quello di una guerra tariffaria che non farebbe bene a nessuno. Non sottovalutiamo le conseguenze delle guerre tariffarie. La storia ci insegna che spesso degenerano in conflitti militari: proprio il rifiuto da parte dell’Impero romano di consentire il libero commercio alla tribù germanica dei Marcomanni spinse questi ultimi a invadere l’Impero nel 167 avanti Cristo. Ci pensò poi Marco Aurelio a ristabilire la solidità del limes, ma la guerra durò oltre 10 anni. Insomma, non possiamo buttare via il bambino con l’acqua sporca. Troppa globalizzazione può far male, ma tornare indietro sarebbe peggio e comunque troppo rischioso.
C’è un secondo rischio, su cui invece il Weo non si sofferma. E’ quello, secondo me sostanziale, che il tentativo di aumentare la crescita di breve periodo nei paesi avanzati porti a politiche economiche troppo espansive e rischiose con pesanti effetti collaterali nel medio termine. E’ un po’ quello che vuol fare Trump negli Stati Uniti: sostenere l’attività economica aumentando il deficit pubblico. Una politica fiscale molto espansiva, soprattutto in presenza di un debito pubblico già molto elevato e di un’economia già vicina alla piena occupazione, spingerebbe verso l’alto i tassi di interesse reali non solo per gli Stati Uniti ma per l’intero mondo. L’aumento dei tassi di interesse potrebbe essere forse evitato attraverso politiche monetarie ancora più espansive (ricordiamoci che il mandato di Janet Yellen, l’attuale presidente della Fed, la Banca centrale americana, scade fra soli 10 mesi) e attraverso una deregolamentazione finanziaria, cosa che Trump sembrerebbe incline a fare anche al di fuori dei circuiti regolamentari creati a livello internazionale negli ultimi due decenni. Ma questo aumenterebbe il rischio di bolle speculative tipo quelle che portarono alla crisi del 2008-09. Lo stesso rischio di politiche troppo espansive vale anche per altri paesi. In generale il rapporto tra debito pubblico e pil nella media dei paesi avanzati è al livello più alto degli ultimi duecento anni, se si esclude il periodo della Seconda guerra mondiale. Dovrebbe essere ridotto, non gonfiato ulteriormente. In ultima analisi, se i paesi avanzati crescono meno che in passato è per la bassa crescita della produttività e per il calo demografico, problemi che non possono essere risolti con politiche macroeconomiche espansive.
Se a tutto questo aggiungiamo i rischi geopolitici correnti, e fenomeni di più lungo termine quali le pressioni migratorie, non si può che concludere che il Fondo monetario faccia bene a sottolineare che la continuazione del processo di crescita resta sottoposta a rischi sostanziali, soprattutto nel medio termine.