Meno male che l'Euro c'é
L’Italia entrò nella moneta unica con toni trionfalistici, ma senza capire come sfruttare quella grande opportunità. Uscendone ora, sarebbe più sola e debole
Europa, Italia – Pubblichiamo un’anticipazione di “Europa, sfida per l’Italia”, da oggi in libreria per Luiss University Press (218 pp., 18 euro). Il volume è curato da Marta Dassù, Stefano Micossi e Riccardo Perissich. L’autore del contributo proposto in questa pagina è Ignazio Angeloni, membro del Consiglio di Vigilanza della Banca centrale europea.
Mentre l’Italia rievoca i sessant’anni dalla firma dei trattati di Roma, l’euro, per certi versi il frutto più recente e tangibile di quei trattati, viene sempre più spesso messo in discussione. Lo si accusa di perpetuare, se non determinare, mali di cui l’Italia soffre da decenni: declino produttivo, disoccupazione, povertà, disuguaglianze, carenze di investimento e infrastrutture, impotenza della politica, e quant’altro. La stessa appartenenza all’Unione europea viene a volte messa in dubbio.
La critica di per sé non sarebbe un male, se offrisse l’occasione per un riesame obiettivo dei rapporti fra il nostro paese e il resto del continente, in un mondo che cambia rapidamente e propone sempre nuove sfide. Un esame di questo genere mancò quasi del tutto vent’anni fa, quando l’Italia entrò nell’euro con toni trionfalistici, ma senza una diffusa comprensione di quale fossero la portata di quel passo e le condizioni necessarie per sfruttarne le opportunità. Diventa però un male, anzi un grave rischio per tutti, se la riflessione è parziale, fuorviante e alimentata da propaganda strumentale. Il dibattito deve fondarsi su argomenti e fatti concreti; l’opinione pubblica ha il diritto di essere informata, ma ha anche il dovere di informarsi adeguatamente.
Alcuni obiettano che l'euro è una gabbia che impedisce di usare la moneta per esigenze nazionali. Finora, è stato vero il contrario
Molte delle argomentazioni a sostegno dell’euro si concentrano sui danni che l’uscita comporterebbe per il nostro paese. L’avvicinarsi di un evento di quel genere o solo la paura di una sua concreta eventualità scatenerebbe fughe di capitali senza precedenti; non solo da parte di speculatori professionali, ma di persone di tutti i ceti sociali, che cercherebbero di difendere i loro sudati risparmi dal rischio di riconversione in una moneta più debole. La fuga dei risparmiatori verso altri paesi e verso beni rifugio costringerebbe qualunque governo ad adottare provvedimenti restrittivi soprattutto sui pagamenti con le banche, come dimostra la traumatica esperienza dei greci, che nel 2015 videro congelare i propri depositi (ancora oggi sottoposti a parziale controllo!) prima che il governo decidesse di adottare misure per invertire le attese di uscita dall’euro. Né la vita dopo l’introduzione di una moneta nazionale sarebbe più facile; anzi. La moneta subirebbe rapidamente una perdita di valore sostanziale; un terzo è una stima prudente. Tutti i beni che importiamo, a cominciare dall’energia che usiamo per muoverci, riscaldarci e far funzionare le nostre imprese, aumenterebbero in proporzione, con immediato impoverimento di tutti, soprattutto dei meno agiati. Disastrosa per i bilanci delle famiglie, la svalutazione lo sarebbe ancora di più per le banche e lo stato. Le banche si finanziano in larga parte con depositi, che possono essere ritirati in qualunque momento allo sportello o per via informatica. La transizione a una moneta nazionale sarebbe un invito a prelevare; da qui una crisi di liquidità che, non potendosi liquidare gli attivi, diventerebbe rapidamente insolvenza. La banca centrale, a quel punto ridiventata nazionale, non potrebbe che intervenire stampando massicciamente moneta, mitigando la corsa agli sportelli ma accentuando la tendenza alla svalutazione. Lo stato, che usa gli introiti fiscali e l’indebitamento per fornire servizi pubblici ai cittadini e per ripagare il debito, vedrebbe gran parte dei suoi introiti convertiti nella moneta debole. I suoi debiti – sia nel caso in cui se ne mantenesse la denominazione in euro, sia nel caso in cui se ne tentasse la ridenominazione in valuta nazionale (operazione la cui fattibilità giuridica è dubbia) – crescerebbero a dismisura; nel primo caso a causa della svalutazione, nel secondo perché lo stato dovrebbe fronteggiare l’insolvenza dell’intero sistema bancario e della stessa Banca d’Italia, sul suo debito verso il sistema europeo delle banche centrali. In entrambi i casi, l’abbandono dell’euro porterebbe all’insolvenza del paese e alla sua impossibilità, per molti anni, di finanziarsi sul mercato. Starebbero meglio le imprese, favorite dalla maggiore competitività del cambio? C’è da dubitarne, almeno per la maggior parte di esse. Prima di tutto perché il loro debito è in gran parte regolato dal diritto internazionale, e poi perché i vantaggi per gli esportatori sarebbero probabilmente erosi da barriere tariffarie e di altra natura erette dai paesi partner, a cui l’Italia non potrebbe opporsi nell’eventualità concreta che all’uscita dall’euro si accompagnasse la cessazione dei benefici derivanti dal mercato unico europeo.
Si potrebbe continuare a ragionare su questi scenari tragici, ma quanto detto già basta a render l’idea. E tuttavia essi, pur realistici e fondati, non offrono un argomento sufficiente a dirimere la questione. La paura di uscire da una stanza nota, per quanto percepita con disagio, non basta a scoraggiare le persone dall’affrontare l’ignoto, reso più seducente, almeno per alcuni, da un mal riposto senso dell’avventura. La cosa importante di cui bisogna rendersi conto è che l’euro ha già procurato vantaggi al nostro paese, e ancor di più potrà darne in futuro.
La stabilità è una cosa che si apprezza quando manca, ma che si tende a dimenticare quando è data per scontata
Il primo beneficio di cui il nostro paese ha già goduto è la stabilità; una cosa che si apprezza quando manca, ma che si tende a dimenticare quando è data per scontata. Senza che ce ne accorgessimo, dal 1999 a oggi l’Italia ha vissuto il più lungo periodo della sua storia recente senza crisi valutarie e finanziarie, nonostante gli effetti della grave recessione economica globale. Chi oggi vagheggia scenari di prosperità economica fuori dall’euro non dovrebbe dimenticarsi delle periodiche e dirompenti crisi della lira, accompagnate da inflazione, crisi del debito e pesanti manovre fiscali, che hanno segnato il nostro paese negli anni precedenti all’entrata nell’euro. Per contro, dal 1999 a oggi l’inflazione nei paesi dell’unione monetaria, inclusa l’Italia, è stata bassa e stabile, come promesso fin dall’inizio la banca centrale europea. Famiglie e imprese hanno potuto godere a lungo di condizioni finanziarie favorevoli, le prime per realizzare investimenti in abitazioni o altre spese, le seconde per finanziare attività correnti e piani di crescita. Lo stato ha potuto finanziarsi a costi molto bassi – al punto, invero, da far dimenticare la priorità irrinunciabile di ridurre le spese. In disavanzo nei pagamenti con l’estero per gran parte della sua storia pre-euro (salvo dopo le grandi svalutazioni della lira), l’Italia negli ultimi otto anni ha raggiunto l’equilibrio senza svalutare la moneta, anche se a costo di una recessione da cui oggi usciamo pur conservandone le ferite.
Alcuni obiettano che l’euro è una gabbia che impedisce di usare la moneta per esigenze nazionali. Finora, il contrario è stato vero. Alla gestione dell’euro concorrono in forme diverse tutti i paesi attraverso le banche centrali nazionali, con varie funzioni ma soprattutto con professionalità e competenze che si traducono in idee e proposte spesso decisive. Ricordare il contributo del nostro paese è fin troppo ovvio, nel momento in cui al vertice siede un presidente italiano apprezzato in tutto il mondo. La BCE ha dimostrato di gestire la moneta in modo flessibile e di usare tutti gli strumenti necessari per portare l’economia fuori dall’emergenza e dalla recessione economica. Quando la situazione lo ha richiesto, ha attuato interventi innovativi per imprimere all’economia lo stimolo necessario, acquistando titoli pubblici e privati in grande quantità e facendo scendere i tassi di interesse al di sotto dello zero. Coloro che descrivono la banca centrale come ingessata da ideologie superate o dipendente dalla Germania dovrebbero riflettere su questo. Per contro, chi ha vissuto l’esperienza delle crisi valutarie italiane precedenti sa che in condizioni di turbolenza un paese come il nostro, esposto a crisi di fiducia per le sue fragilità intrinseche, non ha affatto la possibilità di gestire in modo autonomo la propria moneta. Al contrario, esso rimane in balia di eventi e influenze non controllabili, con effetti negativi endogeni che si aggiungono a quelli di origine esterna.
Dal 1999 a oggi l'Italia ha vissuto il più lungo periodo della sua storia recente senza crisi valutarie e finanziarie
Ogni giudizio sull’euro dovrebbe basarsi su una visione realistica dei suoi obiettivi e dei suoi limiti. L’euro non è stato creato per risolvere tutti i problemi, o per sollevare le autorità nazionali da ogni funzione e responsabilità. Al contrario, la partecipazione alla moneta comune esalta il ruolo delle molte politiche che rimangono in ambito nazionale. Politiche sociali e del lavoro, tributarie e redistributive, della pubblica amministrazione e dei beni e servizi pubblici, e molte altre ancora, rimangono nazionali e diventano in alcuni casi più importanti, proprio perché esse non possono più avvalersi del supporto illusorio fornito dall’inflazione. Dopo l’unione monetaria, alcuni paesi hanno fatto proprio questo concetto, mettendo in atto politiche per aumentare l’efficienza e la concorrenzialità dei sistemi nazionali. Altri lo hanno fatto in misura minore o con ritardo. Alcuni poi si sono fatti illudere dalla relativa facilità delle condizioni nei primi anni dell’euro, credendo che esse sarebbe durate per sempre. Le diverse condizioni in cui i paesi dell’area dell’euro si trovano oggi riflettono in larga parte questi differenti atteggiamenti di fronte a una sfida comune.
L’architettura istituzionale dell’euro, pur progredita negli ultimi anni, rimane incompleta e carente. Più antiche strutture politiche federali come gli Stati Uniti, il Canada o la stessa Germania si sono dotate da tempo di istituzioni e politiche per mitigare gli squilibri fra le macro-regioni che le compongono, anche attraverso il trasferimento di risorse finanziaria e reali. L’Europa ha fatto passi avanti recentemente, con una rapidità notevole nel confronto storico; ma essi rimangono parziali. Esiste un Meccanismo europeo di stabilità, embrione di un “fondo monetario” con l’incarico di sostenere paesi in crisi attraverso la concessione di finanziamenti con determinate condizioni. Nel 2012 è stata avviata l’unione bancaria, portando a livello europeo le politiche di vigilanza e gestione delle crisi bancarie. Queste nuove istituzioni non sono peraltro ancora dotate di tutti gli strumenti necessari. La vigilanza europea è partita nel 2014 e già esercita un’influenza positiva, ma manca tuttora un fondo europeo di garanzia dei depositi, strumento essenziale per garantire uguale fiducia dei depositanti in tutti i paesi. Il fondo europeo per le ristrutturazioni bancarie esiste ma è ancora troppo limitato nella sua dimensione per essere davvero efficace.
Siamo per molti versi ancora in mezzo al guado. E se volgere lo sguardo indietro a quanto è stato già fatto può essere incoraggiante, è al futuro che bisogna guardare. Quali sfide ci riserva il mondo in cui vivremo, noi e soprattutto i nostri figli? Che valenza potrà avere la nostra appartenenza all’euro, all’Europa stessa, in quel futuro pieno di incognite? Sono quesiti complessi, che ci portano lontano; nondimeno, vale la pena di riflettere almeno su tre tendenze di fondo.
La prima tendenza è data dal peso crescente, da almeno un venticinquennio, dei paesi emergenti nell’economia mondiale. La quota di reddito mondiale generato nei paesi avanzati, in crescita costante per due secoli – dalla rivoluzione industriale allo scorcio del novecento – negli ultimi venticinque anni è scesa precipitosamente, tornando al livello di un secolo fa. L’emancipazione di quello che una volta chiamavamo il “terzo mondo” è destinata a estendersi, condizionando la nostra vita futura attraverso la distribuzione dei redditi e della ricchezza e la pressione esercitata sui nostri sistemi sociali e modelli di vita. La seconda tendenza, collegata alla prima, riguarda l’organizzazione della produzione. Anche qui, gli ultimi venticinque anni sono stati rivoluzionari: nei settori industriali e terziari avanzati la catena del valore si distribuisce sempre più fra paesi e aree del mondo diverse, secondo i vantaggi a partecipare ai diversi stadi della produzione. Le tecnologie informatiche consentono di gestire processi geograficamente disgregati con un’efficienza impossibile in precedenza. Questo sistema, che presuppone il libero commercio, coinvolge gli interessi di miliardi di persone su tutta la terra; ben di più delle minoranze che, in alcuni paesi ricchi, chiedono oggi un ritorno al protezionismo. Infine, una terza tendenza, forse la più affascinante, è data dal ruolo crescente dell’innovazione e del capitale umano. Enrico Moretti, un economista italiano che insegna all’università di California a Berkeley, ha descritto in un bellissimo libro le dinamiche che determinano il successo economico e sociale di regioni e città e di coloro che ci vivono. Esse dipendono sempre di più dalla capacità di esprimere idee innovative che danno luogo a beni e servizi di alto valore. I distretti dell’innovazione si concentrano e si autoalimentano, generando intorno a sé nuove opportunità di lavoro a tutti i livelli. Questa è la nuova frontiera dello sviluppo, dove prosperità economica e sociale dipendono sempre più dal capitale umano e dalla sua formazione.
I distretti dell'innovazione si concentrano e si autoalimentano, generando intorno a sé nuove opportunità di lavoro a tutti i livelli
Le possibilità di successo dell’Italia in queste macro-tendenze sono notevoli, ma potranno essere colte solo a certe condizioni. Sono notevoli non solo perché il paese possiede risorse culturali e naturali apprezzate ovunque, ma soprattutto perché il suo capitale umano ha dato prova ripetutamente e in vari settori di poter esprimere alti livelli di innovazione e concorrenzialità. Chi guarda al nostro paese dal di fuori dei suoi confini difficilmente sfugge alla conclusione che l’Italia abbia qualcosa di importante e unico da offrire al resto del mondo. Ma cogliere le opportunità richiede caratteristiche che difficilmente l’Italia può acquisire da sola, al di fuori di un sistema di relazioni politiche ed economiche più vasto e consolidato. Nella politica così come nell’economia, dai negoziati sui temi cruciali (commercio, regolamentazione finanziaria, politiche dell’energia) alla concorrenza globale fra imprese e fra istituzioni finanziarie, navigare nelle tendenze a cui ho accennato richiederà risorse e capacità di influenza di cui l’Italia non dispone. Il suo inserimento in Europa, e ancor più la sua appartenenza all’euro e alle strutture che lo circondano, possono darle questa massa critica. Senza l’euro, senza l’Europa, nel mondo di domani l’Italia sarebbe più sola, debole ed esposta.
Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; se una parte dell’Europa si distacca, tutto il continente ne soffre. Questo scriveva John Donne quattro secoli fa, mentre il vecchio continente sprofondava in uno dei più tragici conflitti della sua storia. Quel richiamo a considerare la comunanza delle nostre vite e dei nostri destini risuona più forte oggi, in un mondo più piccolo ma non meno esposto a incertezze e pericoli.
L’euro è uno strumento, un tassello del nostro modo di stare insieme in questa parte della terra, condividendo più sentimenti e interessi comuni di quanto a volte siamo disposti a riconoscere. Non è perfetto; lavoriamo insieme per migliorarlo.