La fine del Pikettismo
Così la sinistra anti capitalista ha bruciato il suo capitale politico. La parabola dell’ideologo della diseguaglianza che ha fatto sognare Hamon e i suoi fratellastri
Il grande sconfitto delle elezioni francesi è Benoît Hamon, che ha guidato il Partito socialista fino alla soglia dell’estinzione. Ma cosa ha Hamon in comune con altri leader della sinistra europea, come l’inglese Jeremy Corbyn e lo spagnolo Pablo Iglesias? La risposta è semplice: sul piano politico la vocazione minoritaria, sul piano intellettuale l’ideologo di riferimento, ossia l’economista Thomas Piketty.
Con l’estromissione dei socialisti dal ballottaggio, Piketty chiude virtualmente un giro d’Europa che era iniziato proprio in Francia, nel 2007, quando, da consigliere economico, accompagnò Ségolène Royal nella sfortunata campagna contro Nicolas Sarkozy. Tutte le sue avventure politiche successive finirono male, con la parziale eccezione del sostegno a François Hollande nel 2012 (dal quale però si allontanò ben presto, al punto da rifiutare la Legione d’Onore). Fuori dai confini francesi, nella Perfida Albione, Piketty è stato il più ascoltato suggeritore di Corbyn, sotto la cui guida i voti dei laburisti sono precipitati a meno della metà rispetto a quelli attribuiti tory (anche qui i rapporti si sono presto raffreddati). Deluso dalla nebbiosa Londra, l’economista francese si è trasferito nell’assolata Madrid, al fianco di Iglesias: alle elezioni del 2016, però, Podemos ha mancato l’obiettivo di scavalcare i socialisti nonostante l’alleanza con Izquierda Unida e altre sigle dell’ultra sinistra. Da lontano, Piketty ha tifato per Syriza in Grecia (ormai stabilmente sotto il 20 per cento) e per Bernie Sanders negli Stati Uniti (che ha perso le primarie trascinando Hillary Clinton verso le sue posizioni estremiste, e allontanandola dalla Casa Bianca).
Piketty chiude un giro d'Europa che era iniziato in Francia, nel 2007, quando accompagnò Ségolène Royal contro Sarkozy
Non è che Piketty porti sfiga. Più semplicemente, la retorica dell’uguaglianza fine a se stessa, dell’uguaglianza come unica-cosa-che-conta, e che naturalmente peggiora per colpa del neoliberismo, elettoralmente non paga. Per capire perché e percome, bisogna vedere cosa dice e cosa propone l’economista francese. La sua notorietà globale risale al 2014, quando venne pubblicata l’edizione inglese di “Le Capital au XXIe siècle” (“Il capitale nel XXI secolo”, in Italia edito da Bompiani). Il volume, di oltre 700 pagine, si presta a due chiavi di lettura parallele: per un verso presenta i risultati di un poderoso lavoro empirico sull’andamento di lungo termine della disuguaglianza, per l’altro interpreta queste informazioni come la prova della tendenza inesorabile del capitalismo verso una crescente concentrazione della ricchezza. Di conseguenza, l’indagine scientifica dell’economista raffinato sfuma rapidamente nell’agenda politica dell’ultrà di una sinistra vecchia, che culmina nella proposta di una imposta patrimoniale progressiva globale.
Durante la sua lunga luna di miele coi mass media, Piketty è stato una sorta di Papa Francesco dell’economia: non potevi non citarlo e, quando lo facevi, non potevi non parlarne bene. Solo che, a lungo andare, per quanto un intellettuale riesca a fare di se stesso un intoccabile, le sue parole, le sue tesi, le sue argomentazioni e le sue proposte prima o poi finiscono sotto lo scrutinio severo e critico che è la ragion d’essere del dibattito scientifico. Così, il libro di Piketty, tanto interessante e proficuo nella ricostruzione empirica dei dati, è man mano caduto sotto una selva di critiche, che ne hanno investito pressoché ogni aspetto, inclusa la sensatezza delle proposte politiche.
Ciò nonostante, una volta conquistato il podio della superstar, l’economista riuscì a spogliarsi degli abiti grigi da scribacchino accademico e indossare quelli sgargianti dell’attivista politico. Divenne così il punto di riferimento di quel pezzo della sinistra, europea e mondiale, che non aveva mai digerito l’abbandono del socialismo e che pertanto viveva come usurpatori i Bill Clinton, i Tony Blair, i Gerhard Schröder. Quella sinistra, cioè, che ancora oggi continua a riscaldarsi al fuoco dell’ideologia e rigetta ogni forma di pragmatismo riformista (ne abbiamo avuto un eloquente saggio, pochi giorni fa, in Italia, nel dibattito tra Giorgio Cremaschi e Marco Bentivogli nella trasmissione “Otto e mezzo”: da vedere, compulsare e studiare parola per parola).
Quella sinistra non è competitiva né col "liberismo di sinistra" alla Macron, né con la "robaccia di destra" alla Le Pen
Questa sinistra si contraddistingue per alcuni tic ideologici che la rendono non così dissimile – se non nelle gestualità e nella tappezzeria – da quella “robaccia di destra” (copyright Pierluigi Bersani) che, proprio per questo, si è dimostrata molto più efficace nell’intercettare il voto di pancia (citofonare Marine Le Pen e Donald Trump, ma anche Matteo Salvini e Beppe Grillo). Il comune denominatore bipartisan di questa “internazionale della robaccia” è “chiusura”. La sinistra sconfitta e perdente di Hamon (e Jean-Luc Melenchon), di Corbyn, di Iglesias, di Varoufakis, così come la destra vincente di Le Pen e Trump, rifiuta l’apertura dei mercati (la globalizzazione e l’Europa) e del mercato (la concorrenza). La rifiuta un po’ perché non la capisce, un po’ perché, nella misura in cui la capisce, replica uno degli errori fondamentali del “Capitale nel XXI secolo”. Un conto, infatti, è riconoscere che la disuguaglianza è un fenomeno importante e preoccupante, altro è pensare che sia l’unico aspetto rilevante, e altro ancora è illudersi che alla base della disuguaglianza vi sia solo un fallimento redistributivo del mercato. Il grande vizio intellettuale di Piketty & Co., allora, è l’idea che, per sistemare tutto, basti togliere un po’ di soldi dalle tasche di Ebenezer Scrooge per ficcarli nel portafoglio di Bob Cratchit, e che non ci saranno altre conseguenze se non quella che Bob passerà un Natale un po’ migliore. Piketty e i suoi fan, insomma, invocano la chiusura e l’intervento pubblico perché non capiscono che, nel lungo termine, le istituzioni contano molto di più della distribuzione iniziale: e che, dunque, le riforme, non l’esercizio aggressivo del potere di tassare, possono produrre in modo sostenibile quei cambiamenti ritenuti desiderabili (è questo il cuore della critica di Daron Acemoglu e James Robinson a Piketty).
La falange pikettiana perde perché né riesce a offrire una prospettiva riformista, né è sufficientemente credibile quando promette di erigere muri. Lo si è visto molto bene nelle elezioni francesi: rispetto al suo elettorato di riferimento, quella che potremmo chiamare “sinistra di Porto Alegre” non è competitiva né col “liberismo di sinistra” alla Macron, né con la “robaccia di destra” alla Le Pen. Se la difficoltà di battere i populisti sul terreno della scorrettezza politica era cosa nota, adesso è soprattutto l’exploit di En Marche! a introdurre un elemento nuovo, perché rompe la maledizione che, almeno nella maggior parte dei Paesi europei, ha spinto la sinistra nel ghetto dell’irrilevanza.
Piketty ha tifato per Iglesias a Madrid, per Syriza in Grecia, per Bernie Sanders negli Stati Uniti. Tutti fiaschi. Dove ha sbagliato?
Macron si è imposto con un messaggio credibile nell’ambito del quale ha coniugato globalizzazione, Europa e concorrenza con la protezione dei più deboli, senza mai cedere alla retorica della paura. Per capire come abbia potuto esorcizzare Piketty, bisogna leggere un paper di tre studiosi di Yale, Christina Starmans, Mark Sheskin e Paul Bloom, pubblicato sulla rivista “Nature Human Behaviour”. Essi mostrano che la disuguaglianza in sé non è percepita come un problema: lo diventa quando le persone si convincono che poggia su fondamenta inique. In altre parole, “gli esseri umani preferiscono le distribuzioni eque, non quelle uguali, e quando equità e uguaglianza si scontrano, le persone preferiscono la disuguaglianza equa all’uguaglianza iniqua”. Il segreto di Macron, e il tallone d’Achille della sinistra di Porto Alegre, allora, sta proprio nell’aver distinto con nettezza la pretesa dell’uguaglianza dall’aspirazione all’equità: una società aperta, nella quale l’ascensore sociale funziona, può essere diseguale, ma è certamente più equa di un’economia nella quale sono politici e burocrati ad allocare la ricchezza, tassando-e-spendendo (come vorrebbero i massimalisti di sinistra) oppure vietando-e-proteggendo (come chiede la robaccia di destra).
La lezione delle elezioni francesi, e più in generale delle vicissitudini della sinistra europea, per citare Tyler Cowen, è insomma che “quando sentite la parola uguaglianza, tre volte su quattro quello che segue è sbagliato”. Macron lo ha capito. Piketty se ne farà una ragione.