La strada del governo per scongiurare l'errore della nazionalizzazione
L'amministrazione straordinaria è solo un escamotage. La storia dell'aviazione insegna che il fallimento non è tragico
Roma. Non stupisce che in una nazione dove i magistrati ordinari, quelli amministrativi e gli avvocati ricoprono in abbondanza incarichi extragiudiziali nella burocrazia ministeriale, con incisive funzioni di consulenza, la più comune politica industriale per tamponare situazioni di plateale dissesto – pur di non dichiarare fallimento – precipiti nel commissariamento, come nel caso di Alitalia in questi giorni. Lunedì due terzi dei 12.500 dipendenti hanno respinto il piano industriale, fatto di riduzione del personale e tagli degli stipendi, proposto dall’azienda come ultima spiaggia per salvare la compagnia aerea. Di conseguenza il consiglio di amministrazione ha affermato “l’impossibilità” di una ricapitalizzazione che su quel piano si basava. E il governo Gentiloni – ultimo di precedenti quattro a trovarsi col destino di Alitalia in mano – dopo avere negato un soccorso pubblico ha detto che l’unica possibilità è il commissariamento evocando l’amministrazione straordinaria attraverso la legge Marzano, una procedura fallimentare. La legge Marzano è utile al governo non tanto perché si adatta meglio al caso Alitalia – al quale poco s’attaglia – quanto perché consente alla politica dare impulso alla procedura e tenere in mano il proverbiale boccino. La legge Marzano, dal nome del ministro che la firmò, deve infatti essere richiesta dall'Assemblea dei soci (per Alitalia sarà il 2 maggio) e dà il ruolo di iniziatore della procedura al ministero dello Sviluppo economico che deve quindi nominare un commissario straordinario che non è solo risanatore e liquidatore ma anche promotore di una cordata di “cavalieri bianchi” che elabori un concordato fallimentare.
La legge infatti conferisce al commissario l’incarico di cercare possibili investitori che mettono capitali sufficienti a soddisfare quanto basta creditori e fornitori diventando così nuovi azionisti. Così fu per Parmalat, un’azienda sana industrialmente ma depredata, nella quale la francese Lactalis ha investito. Per Alitalia oggi sarebbe diverso in quanto è moribonda, perde 1-1,5 milioni di euro al giorno, e a un ipotetico compratore, come Lufthansa di cui si vocifera, converrebbe attendere il fallimento anziché impegnarsi in un investimento sotto la vigilanza del governo italiano. Secondo indiscrezioni di stampa, uno dei commissari potrebbe essere Enrico Laghi, docente di Economia aziendale alla Sapienza di Roma, già uno dei tre commissari straordinari dell’Ilva (insieme a Piero Gnudi e Salvatore Carrubba), la decotta siderurgia di Taranto dove si replica appunto il modus operandi delle gestioni commissariali delle crisi. Per legge il primo atto del commissario Laghi dovrebbe essere quello di denunciare alla procura della Repubblica i membri del cda di Alitalia dell’ultimo triennio in quanto artefici del dissesto. Il problema è che Laghi, se nominato, dovrebbe cominciare col denunciare se stesso in quanto, stando al suo curriculum vitae, è amministratore di Cai, la compagine dei soci italiani di Alitalia, nonché presidente del cda di MidCo, la sussidiaria che rappresenta gli azionisti italiani ed europei di Cai in Alitalia.
Il caso dell’Ilva è paradigmatico per capire come la gestione commissariale non sia affatto salvifica per le sorti di una società in crisi, anzi può aggravarla. Stante la particolarità del caso – il commissariamento è un derivato delle iniziative della magistratura sulla siderurgia tarantina risalenti al 2012 – Ilva è stata commissariata a giugno 2013, quando era ancora in utile, e a gennaio 2015 è stata posta in amministrazione straordinaria, schiacciata da circa 3 miliardi di euro di debiti. E’ dunque preferibile dichiarare fallimento anziché usare denaro pubblico per mantenere in vita (e male) aziende decotte in nome dell’assistenzialismo? Alitalia “è morta ma non cade a terra”, ha detto al Financial Times Andrew Charlton, analista svizzero. Tuttavia cadere non è sistematicamente un dramma. La compagnia ungherese Malev è fallita nel 2012 tra gli allarmi del gestore dell’aeroporto di Budapest al quale garantiva il 40 per cento del traffico. Le low cost Ryanair e Easyjet hanno presto occupato lo spazio. “Abbiamo beneficiato del collasso di Malev e abbiamo imparato a essere più concentrati sulle questioni rilevanti e sul marketing, e a non dormire più sugli allori contando su un’infrastruttura esistente per guidare il nostro business”, ha detto il ceo dell’aeroporto Jost Lammers quattro anni più tardi. “Budapest adesso sta risalendo e la nostra posizione è più vicina ai nostri concorrenti nella regione”.
Lo spazio di Alitalia è già conteso dalle low cost che contano per il 47,7 per cento dei voli in Italia, contro il 30 di Germania e il 26,5 della Francia che invece proteggono i rispettivi vettori Lufthansa e AirFrance. Questi ultimi sono colossi europei diventati grandi comprando concorrenti più piccoli e in crisi. Non aspettando altro che un concorrente come Alitalia scompaia. AirFrance nel 2004 ha rilevato l’olandese Klm. Lufthansa è cresciuta inglobando le fallite Swissair e Sabena oltre ad Austrian. British Airways ha rilevato Iberia sull’orlo della bancarotta. PanAm, nata negli Stati Uniti negli anni ’30, è fallita nel 1991 dopo anni di cattiva gestione che non le hanno permesso di affrontare la concorrenza a un decennio dalla liberalizzazione del mercato americano. E’ stata spartita tra le concorrenti nazionali Delta, American Airlines e United Airlines. L’industria dell’aviazione è mondiale perché il prodotto venduto è globale. E’ necessario ragionare in questi termini – e non quelli nazionalistici novecentesteschi – per capire che dal fallimento possono crearsi delle opportunità.