Perché l'allarme sulla disoccupazione giovanile è una truffa
Nell'Italia dei rentiers, la sofferenza più acuta non è tra i ragazzi ma in una fascia diversa, che va dai 25 ai 34 anni. I dati Istat alla luce di un caso da 3.000 euro al mese
Roma. Sostiene Alessandro Barberis Canonico: “Cerchiamo giovani di valore da formare, indirizzare e assumere e non riusciamo a trovarli”. Lo dice nel marzo scorso al Diario di Biella, giornale online che ha anche una sua web tv. Poi, qualche giorno fa, intervistato da Klaus Davi, rilancia: “Stiamo cercando informatici, perché sviluppiamo i nostri software all’interno. E non riusciamo a trovarli. Partiamo da salari con cifre di alto livello, possono arrivare a tremila euro netti al mese, perché è difficile trovare un programmatore capace sul territorio o uno disposto a venire in una fabbrica tessile a Biella”. Parliamo di Vitale Barberis Canonico, uno dei più antichi e prestigiosi lanifici italiani, azienda familiare da oltre duecento anni, con un fatturato di 150 milioni di euro, almeno tredicimila clienti in giro per il mondo, privati, sarti, stilisti. Veste capi di stato e gagà modaioli, come mai non ha appeal verso i giovani? Secondo l’ingegner Alessandro, amministratore delegato, “spaventa il manifatturiero. Se uno parla di marketing, comunicazione e vendite… diciamo che è molto più trendy. La vecchia tintoria sporca, di macchinari in cui le lavorazioni si facevano a mano, oggi non esiste più. Gran parte del processo produttivo è automatizzato, è questa l’immagine che forse noi dovremmo cercare di trasmettere ai ragazzi”. Le stime mostrano che nei prossimi cinque anni il 20 per cento della forza lavoro andrà in pensione. Vuol dire che nel biellese mancheranno almeno duemila lavoratori e l’Unione Industriale si sta attivando per far fronte, ma non è facile.
Rilanciata su Twitter, la denuncia-appello genera scetticismo. Ma sarà proprio così? E di che lavoro si tratta? Quanto ti sfruttano? Dove si trova Biella? Cosa c’è scritto sul sito? Le parole dell’industriale si possono ascoltare su Facebook, anche se non bastano a convincere gli irriducibili dell’apocalisse per i quali si tratta di un caso isolato, l’eccezione che non fa la regola. La regola è quella del circo politico-mediatico dove si continua a suonare la grancassa. Ieri l’Istat ha pubblicato i dati di marzo dai quali risulta che la disoccupazione è tornata a crescere sia pur di poco (lo 0,1% in più) e si colloca in ogni caso, con l’11,7% ben sopra la media dell’Euro zona. Gli occupati sono rimasti stabili, sono diminuiti gli inattivi, insomma la pur flebile ripresa ha rimesso in moto chi cerca un lavoro. Naturalmente, il riflesso condizionato porta a sottolineare la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni): anche se è ai livelli più bassi degli ultimi cinque anni, le stime ufficiali mostrano una cifra altissima, pari al 34,1%. Il dato comprende chi studia. Se si vanno a leggere le cifre, si scopre che i disoccupati veri e propri sono 524 mila, gli occupati un milione e 13 mila, gli inattivi 4 milioni e 349 mila. Sommando chi frequenta una scuola secondaria superiore e gli universitari iscritti, arriviamo a 4 milioni 300 mila. Dunque, siamo in presenza di un effetto statistico e dovrebbe essere ogni volta sottolineato per evitare di prendere abbagli non solo analitici, ma politici. Il problema più serio è semmai tra chi si colloca tra i 25 e i 34 anni: qui gli occupati sono 4 milioni, i disoccupati 879 mila e gli inattivi un milione 748 mila e questi ultimi non sono studenti. Anche se negli ultimi mesi si è visto un piccolo miglioramento, tra domanda e offerta c’è una voragine, inferiore solo a quella che divide i cinquantenni (tra loro il tasso d’inattività raggiunge il 37% e ovviamente non c’è la scuola a fare da cuscinetto). Insomma, la sofferenza più acuta non è tra i ragazzi, nonostante tutto quel che si sente dire.
Aziende come la Vitale Barberis Canonico non cercano tecnici né tra i giovani né tra gli anziani, ma proprio nella fascia tra i 25 e 34 anni. Nell’insieme, il 40% della popolazione di questa età è fuori dal lavoro, eppure le fabbriche del nord hanno un fabbisogno insoddisfatto di manodopera. La stessa inchiesta ha raccolto la testimonianza dell’industriale marchigiano Giovanni Fabiani che guida l’omonima azienda di calzature, di Giovanni Zengarini che produce per Cavalli o Bluemarine, di Bachisio Ledda che guida la City Poste Payment. Insomma, dalla manifattura alla logistica, è la stessa lamentela contro “la generazione Zuckerberg” che magari sa di nuove tecnologie, ma tiene soprattutto d’occhio l’orologio ed è vittima spesso di una illusione: tutti vorrebbero fare start-up la maggior parte delle quali non ha gambe per sopravvivere una volta esauriti i fondi pubblici, protesta Ledda. Fabiani se la prende con un tarlo generazionale: “Ho provato a inserire diversi giovani nelle nostre fabbriche. Però il lavoro per loro non sembra così fondamentale. Orlatura, tagliatura? Specializzazioni che non interessano”. Alla fine il lavoro sarà anche un diritto, ma il mestiere non è una priorità: nell’Italia dei rentiers è il reddito che conta.
La lotta alla disoccupazione in questa nuova era di globalizzazione decrescente, s’è fatta molto più inafferrabile. Occorre affrontare un mélange di economia stagnante e stallo demografico, illusione tecnologica e rassegnazione etica, assistenzialismo e rifiuto del lavoro che comporta disciplina (la battaglia contro la fabbrica-caserma ha creato un nuovo senso comune che si è fatto norma e giurisprudenza). Mentre l’Italia continua a registrare una forza lavoro meno istruita e preparata rispetto ad altri paesi (basti vedere la bassa percentuale di diplomati e laureati). Tutto questo in un mercato che, rigido e inefficiente com’è, esalta tutte le componenti negative. Anche i paesi del nord vivono lo stesso spirito del tempo, ma hanno reagito in modo pragmatico, riducendo i rischi, come la Germania che ha rilanciato gli istituti professionali e riformato il mercato del lavoro, o la Danimarca con la sua flexicurity, l’Olanda, la Svezia, tutti paesi nei quali il tasso di disoccupazione va dal 5 a poco più del 6 per cento. In Italia i tentativi di seguire una strada simile sono stati sistematicamente avversati, talvolta apertamente boicottati. Barberis Canonico e gli altri industriali hanno suonato un ulteriore campanello d’allarme. I loro cahiers des doléances vanno verificati, ma è da sciocchi non prenderli sul serio.