Perché ormai si parla di Alitalia solo con categorie d'antan
La crisi di Alitalia ha la forma di un circuito chiuso e si ripete pressoché identica a se stessa da decenni
Roma. Lo spettatore di “Report” mercoledì sera ha forse avuto una sensazione di déjà-vu nel vedere l’intervista di Domenico Cempella, 79 anni, amministratore delegato di Alitalia dal 1996 al 2000, intento a ripetere le stesse ricette evocate dieci anni fa per salvare la compagnia, allora pubblica ma già tecnicamente fallita come oggi. Lo spettatore è scusato: in quanto irrisolta, la crisi di Alitalia ha la forma di un circuito chiuso e si ripete pressoché identica a se stessa da decenni. E’ dunque comprensibile che l’unico riferimento temporale per parlarne sia il passato, e che le emozioni della classe dirigente siano il rimpianto o la nostalgia. Ora a “Report” Cempella rimpiange il veto politico a un’alleanza con Klm, quando fu chiamato alla cloche dal governo Prodi nel 1996, all’epoca azionista di riferimento, l’azienda in cui aveva sempre lavorato versava in condizioni critiche. “Debiti per 3 mila miliardi di lire, un patrimonio netto di 150 miliardi, 10 anni di perdite e una situazione interna abbastanza difficile perché c’erano delle forti lotte intestine tra sindacati. Era un prodotto che non stava sul mercato, Alitalia era veramente tecnicamente fallita”. Sempre Cempella riassumeva così la situazione, intervistato a “La Storia Siamo Noi” nel 2008, puntata “Alitalia come Italia. Una crisi all’ultimo atto?”. Oggi la fotografia è identica, peggiore solo nei dettagli.
Di recente Susanna Camusso, segretario della Cgil, ha ricordato l’Alitalia pubblica (“non era in queste condizioni”) con la nostalgia del tempo delle mele. Eppure il 1996 fu uno degli anni più drammatici (ne arriveranno altri). Quel che cambia è il ritmo delle crisi: 1996-’97 (apertura del mercato europeo, il ritardo nella privatizzazione fa da deterrente a un’alleanza continentale con Klm e Air France) – 2008-2009 (la privatizzazione arriva e porta il depauperamento della flotta con incremento di aerei in affitto) – 2014 (alleanza mondiale, con l’emiratina Etihad, in ritardo rispetto ai competitor mentre il mercato del lungo raggio è occupato dai concorrenti e quello domestico penetrato dalle low cost) – 2017 (fallisce il rilancio). Anche di questi tempi la stampa si chiede se sia “l’ultimo atto” – prima lo faceva con un intervallo decennale, poi quinquennale, ora triennale. La tendenza di fondo è che Alitalia, operativa dal 1947, ha cercato di mantenere il monopolio del mercato domestico nei decenni, senza sviluppare parallelamente il lungo raggio servito soprattutto di aerei in leasing, in un paese affollato di aeroporti oltre il necessario. L’establishment politico-sindacale ha conservato quello strumento di rendita parastatale che Alitalia rappresentava producendo e promettendole assistenza.
Tuttavia le libere scelte dei consumatori hanno premiato la concorrenza di altri vettori e di altri mezzi di trasporto, espellendo Alitalia dal mercato. Le compagnie a basso costo Ryanair e Easyjet sono penetrate in Italia più che in Francia e in Germania, dove i vettori di bandiera sono protetti. La concorrenza ferroviaria dell’Alta velocità è stata fatale per la rotta Milano-Roma che per giunta era stata difesa – per legge – dalla concorrenza di altri vettori nel triennio successivo alla privatizzazione del 2008. Nel lungo periodo la difesa assistenziale di una fonte di rendita politica ha insomma prostrato Alitalia, che dunque si trova a rivivere lo stesso film. Il governo Gentiloni ha deciso di commissariare Alitalia in amministrazione straordinaria dopo che il 24 aprile scorso la maggioranza dei lavoratori aveva respinto il piano di ristrutturazione e ricapitalizzazione elaborato dalla banca d’affari Lazard. Uno dei tre commissari, Luigi Gubitosi, ex dg Rai, già cooptato da Alitalia a marzo per diventare presidente in caso d’approvazione del piano, sembra ora intenzionato a scegliere lo stesso consulente, risulta al Foglio. La squadra non cambia. D’altronde nulla cambia in Alitalia.