Perché nel calcio è crollata la piramide assistenziale pagata dalla tivù

Renzo Rosati

Tutte le prime dieci società di calcio al mondo hanno uno stadio di proprietà o privato

Roma. I divanisti del calcio conosceranno il proprio futuro, triennio 2018-2021, solo ad autunno, con il prossimo ex “campionato più bello del mondo” iniziato, magari l’ultimo delle vacche grasse, gli 1,2 miliardi di diritti televisivi pagati da Sky nel 2015. A settembre la Lega ripeterà l’asta fallita il 10 giugno: aveva fissato una base di un miliardo, sono stati offerti 494 milioni da Sky, unico concorrente, con Mediaset al momento fuori gioco, in attesa che si ripristini l’eventuale accordo con Vivendi e Telecom Italia. Ed è su questo che puntano i presidenti ottimisti, tipo Urbano Cairo, proprietario del Torino e di Rcs, secondo il quale “il nostro calcio vale molto di più della cifra ridicola di Sky”.

 

A settembre però il campionato sarà appunto partito (il 20 agosto), il mercato estivo finito, i nuovi contratti depositati, quelli in corso prorogati o ritoccati. Quanti se la sentiranno di rischiare senza il paracadute degli introiti televisivi? Già, perché oltre a questo non c’è molto altro a determinare il valore del calcio italiano. “Da anni tutti gli esperti invitano a non aspettare la manna dal cielo della televisione”, dice Marcel Vulpis, economista di marketing sportivo e direttore dell’agenzia Sporteconomy. “In Italia il prodotto calcio è poco internazionalizzato, gli investimenti negli stadi, nelle sponsorizzazioni e nel merchandising sono indietro rispetto alla concorrenza europea”. Lo conferma l’analisi di Kpmg, che in coincidenza della finale di Champions persa dalla Juventus contro il Real Madrid ha calcolato in 30 miliardi il valore d’impresa (redditività, popolarità, potenziale sportivo, diritti tv e proprietà dello stadio) delle 32 maggiori squadre europee. La Juve è nona con 1,2 miliardi in una graduatoria che vede al primo posto il Manchester United (3,2) seguito da Real e Barcellona, dal Bayern Monaco e da altre quattro inglesi, Manchester City, Arsenal, Chelsea e Liverpool. Molto peggio se la passano Milan (15esima), Roma, Inter e Napoli (da 18 a 20esima), e Lazio (29esima con 240 milioni).

 

Ma non è la sconfitta juventina per mano dei Galacticos, e l’ormai preoccupante digiuno delle italiane dalla vittoria in Champions – ultima, l’Inter nel 2010; la Juventus manca dal ’96 – a determinare il minor valore dei club, e di conseguenza dei campionati, rispetto a inglesi, spagnoli e tedeschi. I diritti tv sono stati pagati 3,6 miliardi in Inghilterra, 1,7 in Spagna, 1,4 in Germania; ma negli ultimi dieci anni solo due squadre inglesi (Manchester United e Chelsea), due spagnole (Real Madrid e Barcellona) e una tedesca (Bayern), rispetto alle italiane Milan e Inter, hanno alzato la grande coppa. Mentre nel report di Kpmg tra le squadre che superano il miliardo parecchie non hanno mai vinto (Manchester City, Arsenal, Tottenham, Paris SG), altre vittoriose vivono di glorie passate.

 

La vera differenza è altrove: tutte le prime dieci, Juve compresa, hanno uno stadio di proprietà o privato. Anfield Road dove gioca il Liverpool è inoltre della multinazionale americana Fenway che oltre all’impianto e alla squadra controlla i Boston Red Sox di baseball. E neppure il paragone dei super-sponsorizzati e moderni stadi privati stranieri con i vecchi e pubblici Meazza, Olimpico e San Paolo basta a spiegare la crisi finanziaria del calcio italiano. C’è un numero, ed è quello delle squadre professionistiche italiane che campano in pratica di diritti tv: sono 102 tra A, B e C. In Inghilterra sono 92, ma solo Premier League e Championship si spartiscono la torta televisiva. In Germania 56, in Spagna 42, in Francia 40. Insomma il modello del pallone italiano è una gigantesca piramide assistenziale che ha come quasi unici introiti la televisione. Finché la domanda ha compensato l’offerta, è durato. Ora che il mercato lo fa chi compra e non chi vende non regge più.

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