In Europa vogliono salvare la sharing economy 

Maria Carla Sicilia

Perché Uber e le altre piattaforme collaborative vanno incoraggiate, per il bene dell'economia europea

Strasburgo. Le vicende legali di Uber nei tribunali di mezza Europa lo raccontano chiaramente: i singoli stati non sanno come gestire le piattaforme collaborative che hanno smosso non poche certezze nei settori dell'economia tradizionale, e di questo se n'è accorta anche l'Europa. Oggi il Parlamento di Strasburgo voterà una risoluzione che muove i primi passi verso la definizione di una cornice legislativa per i soggetti come Uber o Airbnb, che mettono in contatto clienti con fornitori di servizi, professionisti o meno. “Fin ora la questione è stata più dibattuta nelle aule legali che in quelle legislative”, dice al Foglio il relatore del documento, Nicola Danti, spiegando così perché è importante definire un quadro comune che riempia i buchi normativi in tutto il contesto europeo. “Non possiamo mettere in discussione il mercato unico che abbiamo costruito con fatica, assecondando questa frammentazione”.

 

Secondo Danti sono le “zone grigie”, insieme alla difficoltà di accesso al credito per le esperienze in fase di startup, i principali motivi che frenano la crescita della sharing economy in Europa. “Non si tratta di aggiungere vincoli legislativi, ma di eliminare l'incertezza giuridica che impedisce la crescita di questo modello di business”, continua, “Chi investirebbe su un'azienda che viene messa in discussione da un momento all'altro dal primo tribunale?”. In effetti, numeri alla mano, l'Europa intera fatica a lasciare spazio a esperienze di sharing economy: delle prime dieci aziende per fatturato, solo una – Blablacar – è nata in Europa e ha varcato i confini dei singoli stati, mentre le altre sono multinazionali americane. Intanto però il settore ha un potenziale di crescita notevole, che non viene messo nelle condizioni di fruttare quanto potrebbe. Secondo i dati riportati nella relazione si parla di 3,6 miliardi di ricavi nel 2015, con una crescita annua superiore al 25 per cento. Ma come si fa a raggiungere queste cifre, dove sono le aziende? Relegate nei confini nazionali. “In Italia si contano 138 piattaforme collaborative, secondo l'ultimo censimento fatto nel 2016 da Collaboriamo. Ma restano tutte esperienze limitate, che non varcano i confini. Una delle difficoltà italiane è proprio quella di riconoscere tutte queste esperienze come un soggetto unico con cui interloquire”, spiega Nicola Danti.

 

Non c'è solo questo, ma anche la mediazione con quei settori dove le esperienze di sharing hanno maggiormente colpito i modelli tradizionali, basta pensare alla battaglia dei tassisti contro Uber. Come si supera l'impasse? “Offrendo un quadro chiaro: una tassazione equa, regole di accesso al mercato uguali, responsabilità verso il cliente. Il problema va posto, altrimenti la situazione non si sblocca. Porre la questione può portare vantaggi anche alle imprese tradizionali: noi vogliamo semplificare, quindi anche rivedere i meccanismi che negli anni sono diventati obsoleti per via della concorrenza delle nuove tecnologie. Chiediamoci per esempio se per guidare un'auto serva ancora una licenza o meno”.

 

La relazione non sarà vincolante per gli Stati membri ed esorta la Commissione europea a valutare se le normative esistenti, come la direttiva sull'e-commerce o quella sui servizi, possano essere applicate nel campo: “In parte potrebbero essere utilizzate anche per le piattaforme collaborative e laddove non bastasse, l'invito alla Commissione è di valutare eventuali nuovi provvedimenti chiarificatori”.

 

Sono proprio i punti forti della sharing economy a costituire gli aspetti più controversi da gestire. Secondo Danti la crescita economica, la coesione sociale e le nuove forme di lavoro sono tra i principali vantaggi delle piattaforme collaborative. Ma leggendo la relazione ci si accorge che i ricavi fatturati portano con sé la questione fiscale e le nuove opportunità di lavoro pongono il problema della tutela dei nuovi impiegati e della distinzione tra professionisti e non. Insomma, più il settore cresce più si notano gli aspetti delicati: Uber e Airbnb sono gli esempi migliori. Ma sono in buona compagnia, perciò: “Il primo obiettivo è fare il punto di una realtà che già esiste. Poi sarà utile definire i ruoli e le responsabilità di ogni attore in campo, senza sottovalutare quello delle stesse piattaforme, che in diversi casi non sono solo neutri intermediari ma stabiliscono anche compensi e modalità di lavoro”.

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