La sede della Bce (foto Max Pixel)

La goduria dell'EUROriscatto

Alberto Brambilla

Un sano e ragionato ottimismo ha prevalso sulla falsa convinzione di vivere nel peggiore dei continenti possibili. Il boom dell’occupazione e la success story europea

Quando il 26 luglio 2012 Mario Draghi, in carica come presidente della Banca centrale europea da neppure un anno, pronunciò a Londra il suo famoso “whatever it takes”, la formula per annunciare che avrebbe salvato l’euro a qualunque costo, pochi europei credevano nel suo successo, e ancora meno nel futuro dei singoli paesi con moneta unica nei quali vivevano. Ora la situazione è migliorata. Ad esempio, il numero di occupati nell’area non è mai stato così alto complessivamente come oggi, dice Eurostat. Dunque l’Europa non sembra più il continente peggiore nel quale vivere come vuole la vulgata apocalittica. A quasi cinque anni di distanza è però utile ricordare come ci siamo arrivati.

 

Ai tempi del “whatever it takes” l’Eurozona era in piena recessione (meno 0,8 a fine 2012) con la Grecia a picco e in default. Il pil italiano risulterà a fine anno in caduta del 2,8 per cento, dato peggiore, come per il resto d’Europa, dopo il meno 5,5 del 2009 post crollo di Wall Street. La Spagna perdeva 2,1 punti di ricchezza, il Portogallo quattro, Francia e Germania erano a zero. Nel frattempo il Regno Unito con la sterlina cresceva di circa un punto e gli Stati Uniti con il dollaro di due e mezzo. C’erano tutti gli ingredienti, e magari tutte le aspettative, per prevedere che la volontà di Draghi si sarebbe infranta con la fine prematura dell’euro, e che anzi l’euro stesso e le ricette di austerità che lo regolavano, imposte dalla cosiddetta “egemonia della Germania”, fossero la causa, non la via d’uscita dalla crisi.

 

In Italia del resto imperversava il dibattito sul “golpe” del 2011, con lo spread schizzato a quota 575, l’arrivo forzato di Mario Monti al posto di Silvio Berlusconi, la riforma per decreto sulle pensioni e della spesa pubblica, la reintroduzione della tassa sulla prima casa, mentre il Tesoro faticava a vendere i Bot al 7 per cento. Giusto per chi ha la memoria corta: i Bot a 12 mesi sono stati collocati ad aprile scorso con rendimento negativo dello 0,23, cioè il 723 per cento meno di quei mesi. Lo spread, che per quasi tutto quel 2012 era tornato a sfiorare i 500 punti, è oggi a 170, anche grazie alla sconfitta grillina alle elezioni comunali. E’, certo, merito pure del Quantitative easing, l’acquisto di obbligazioni pubbliche e anche private, e tassi sottozero, attivato da Draghi a partire dal 2015, il più potente bazooka monetario visto da questa parte dell’Atlantico. Ma l’Italia era già uscita dalla recessione nel 2014, con un anno di ritardo sull’Europa, e comunque con la ricchezza di italiani e di europei che ha ripreso a crescere. Sul ritardo italiano pesano non poco le debolezze delle banche (in ritardo pure quelle pensando ai 448 miliardi di ricapitalizzazioni pubbliche attuate nel nord Europa nel 2008-2012): ma stiamo parlando di 20 miliardi; e le pur complesse direttive incrociate della Commissione di Bruxelles e della Vigilanza della Bce si stanno, alla fine, rivelando meno “nemiche del popolo” di quanto abbia ripetuto a josa la retorica populista. Monte dei Paschi, popolari venete e i quattro piccoli istituti del centro Italia finiti in bail-in a novembre 2015 sono vittime non di Angela Merkel e degli euroburocrati, ma della loro pessima gestione in nome della difesa del territorio sbandierata da post comunisti e leghisti.

   

Nel contempo la stessa regola del bail-in, con risoluzione e oneri a carico di azionisti, obbligazionisti subordinati e, oltre soglie elevate, depositanti, ha evitato un contagio sistemico stile Lehman Brothers. Delle maggiori banche italiane, Intesa è sempre stata fuori dai guai, Unicredit ha portato a termine il maggiore aumento di capitale d’Europa, Ubi può rilevare le quattro banche “risolte” nel 2015. Il Tesoro, cioè il contribuente italiano, ha guadagnato un miliardo di interessi con i 4 miliardi al 9 per cento di Tremonti e Monti bond prestati ad Mps gli anni scorsi; attenendosi alle regole europee, cioè comportandosi da azionista di mercato, può, anzi deve fare altrettanto adesso. Ma c’è un altro aspetto che il populismo anti euro tende a dimenticare. Ed è la correlazione tra la moneta unica e la tenuta economica e politica dell’Eurozona. Rispetto al dollaro, l’euro ha oscillato tra il rapporto di 1,2-1,3 negli anni di maggiore recessione; il Qe e l’annuncio di rialzo dei tassi d’interesse negli Stati Uniti non ne ha poi prodotto il sostanziale deprezzamento previsto dagli economisti ortodossi. Si sono invece deprezzati sull’euro la sterlina, lo yen giapponese, lo yuan cinese. Ma questo non ha impedito ai tre grandi paesi esportatori d’Europa – Germania, Italia e Spagna – e, per le aziende che nel 2012 non abboccarono ai profeti si sventura, di aumentare i profitti e attuare pratiche di competitività aziendale. Di conseguenza l’Europa continentale si presenta oggi come l’area economica più stabile del mondo; e la Brexit, in questo, l’ha rafforzata. Le sue dinamiche di crescita possono certamente essere più vivaci; ma dovrebbe sacrificare quote di welfare – sanità, previdenza, istruzione, libera circolazione – come è stato fatto altrove, che gli europei considerano un patrimonio. Questo è stato in fondo il calcolo degli elettori francesi chiamati a scegliere tra l’europeismo 4.0 di Emmanuel Macron e il nazionalismo protezionista di Marine Le Pen. E così gli olandesi. E gli spagnoli. E gli irlandesi. Nessun dubbio sui tedeschi. Se si mostrerà la stessa saggezza delle amministrative non c’è ragione per cui non accada anche in Italia. Dove sono i leader euroscettici della famosa foto del summit di Coblenza del gennaio scorso (mica un’eternità)? Assente – anche allora – Beppe Grillo, di quei selfie resta Matteo Salvini. Un po’ poco per far saltare l’Europa.

  

Senza retorica, non la speranza ma un sano e ragionato ottimismo ha prevalso sulla superficiale e falsa convinzione di vivere nel peggiore dei continenti possibili. Per anni l’Europa è sembrata vagare senza guida e senza meta come alla fine dell’Ottocento e soprattutto tra le due guerre mondiali. Ma è da questo stato di smarrimento che ha saputo rafforzare il progetto di un continente (di popoli diversi) unito. L’esigenza di dimenticare e mai più ripetere guerre armate intestine laceranti, con relativo portato di (vera) miseria, è stato il motore ideale che ha dato all’utopia europea il carattere di un evento storico concreto ed epocale. Ai giorni nostri l’eventualità di perdere per mano di partiti sovranisti una conquista politica pluridecennale come la creazione di uno spazio monetario realizzato grazie alla volontaria cessione di sovranità degli stati membri ha dato nuovo impulso al “progetto euro”. La cancelliera Merkel da un biergarten bavarese ha da poco riecheggiato lo spirito paneuropeo che si ritrova nei trattati politologici d’inizio Novecento affermando che “noi europei dovremmo davvero prendere il nostro destino politico nelle nostre mani” – una sentenza che è influenzata dall’attualissimo distacco dell’euroscettico Regno Unito dalle istituzioni comunitarie. Si nota dunque un sentimento patriottico continentale in quest’anno che doveva essere fatale ma che è stato invece positivo, a conti fatti.

  

In un recente documento programmatico la Commissione europea conta di includere nella zona euro i paesi dell’Unione europea che ne sono fuori entro il 2025. C’è minore entusiasmo tra la popolazione rispetto al fervore della metà del secolo scorso, è vero, ma comunque il 60 per cento degli europei e il 70 per cento di coloro che vivono nell’Eurozona – ovvero la maggioranza – è favorevole all’euro che è vissuto non come un nemico esterno ma come un dato di fatto che non è all’origine di tutti i mali – i mali sono spesso locali – ma che anzi ha dimostrato di resistere alla crisi finanziaria peggiore dalla Grande depressione degli anni Trenta.

  

La crescita economica nella zona euro prosegue ormai da diciannove trimestri consecutivi, pur con diversa intensità tra gli stati membri, e nel 2016 è stata maggiore (1,8 per cento) di quella degli Stati Uniti (in rallentamento all’1,6 per cento). E la tendenza prosegue: la crescita nei primi tre mesi di quest’anno è stata più rapida che in qualsiasi trimestre dal 2015. L’occupazione è aumentata dello 0,4 per cento nel primo trimestre del 2017 rispetto allo stesso periodo dell’anno prima raggiungendo i massimi storici: gli occupati sono 234,2 milioni nei 28 paesi dell’Unione, 154,8 milioni nell’area euro – il livello più alto mai raggiunto in entrambe le zone. L’inversione del rischio politico dagli Stati Uniti all’Europa – complici le disavventure di Donald Trump e la parallela saldatura Merkel-Macron – ha poi convinto gli investitori a spostare capitali nel Vecchio continente sia sui titoli sovrani sia sul mercato azionario un po’ perché sono inclini a vedere il bicchiere mezzo pieno e un po’ perché un euro forte garantisce maggiori ritorni a chi investe dall’America. Il sistema bancario europeo era visto come un campo di battaglia dagli investitori internazionali soprattutto per via dell’incapacità complessiva di arginare alcune crisi creditizie potenzialmente esiziali, in quanto sistemiche, senza però fare pagare il costo ai contribuenti ovvero aumentando il fardello del debito pubblico. Questa prospettiva negativa comincia a cambiare. L’Europa, scriveva il Wall Street Journal, ha dimostrato di sapere gestire una crisi di un intermediario. A inizio giugno l’istituto spagnolo Banco Popular è stato dichiarato fallito e immediatamente comprato al prezzo simbolico di 1 euro dal Santander dopo avere sacrificato gli obbligazionisti subordinati secondo le nuove regole del bail-in, altrove demonizzate. Per l’agenzia di rating americana Moody’s l’operazione realizzata in Spagna – paese che cresce più rapidamente tra i quattro principali dell’Eurozona – è stata una garanzia di credibilità.

  

Sotto la superficie si muovono però rivalità nazionali e lamentele protezionistiche che rendono il proposito di Merkel sull’uomo europeo che deve forgiare l’Europa ancora distante dall’essere compiuto. Il programma di acquisto di obbligazioni societarie lanciato dalla Bce un anno fa – finora sono stati acquistati titoli per 90,71 miliardi, secondo la società di ricerca CreditSights – ha anche l’obiettivo di rafforzare le aziende europee incoraggiando fusioni e acquisizioni. Tuttavia le alleanze tra compagnie continentali sono in calo rispetto agli anni passati e ci sono difficoltà elevate a creare dei campioni europei capaci di competere con i concorrenti americani e asiatici. Il 2017 è stato l’anno del merger tra l’italiana Luxottica e la francese Essilor, la più grande integrazione infra-europea (valutata 24 miliardi) da quando il produttore belga di birra AB InBev ha comprato la rivale inglese SAB Miller l’anno scorso. L’italiana Atlantia punta a rilevare le autostrade spagnole di Abertis per formare il più grande operatore stradale europeo, ma trova l’ostilità del governo di Madrid. L’acquisizione francese di Mediaset da parte di Vivendi per creare un operatore di stazza dei contenuti multimediali e televisivi è ostaggio delle autorità italiane. L’acquisto dei cantieri navali di Saint-Nazaire da parte di Fincantieri è invece ostaggio di quelle francesi anche con i presidente Macron, ex banchiere Rothschild che pure in passato si era dimostrato aperto agli investimenti esteri in Francia – nello specifico cinesi nell’aeroporto di Tolosa. Il più grande produttore d’acciaio privato mondiale, la ArcelorMittal, un colosso europeo frutto di plurime fusioni continentali prima dell’integrazione con l’indiana Mittal, si è aggiudicata di recente la gara per l’acquisto dell’acciaieria Ilva di Taranto che aveva in funzione l’altoforno più grande d’Europa, ma trova l’ostilità di politica e sindacati italiani. ArcelorMittal punta a rilevare uno stabilimento produttivo con sbocco sul Mediterraneo e affermare così la primazia sul continente come produttore europeo.

  

Molti dei problemi che hanno ingolfato l’Eurozona in questi anni come si vede sono ancora acuti. La tendenza della Germania a risparmiare anziché a spendere e investire preoccupa molto i vicini. La riluttanza a riforme toste del mercato del lavoro in Italia e in Francia per aumentare la produttività contribuisce a ridurre le prospettive di una maggiore e rapida crescita economica dell’area. Ma chi prevedeva sistematicamente un cataclisma e il galleggiamento europeo in una palude politica, sociale ed economica ha ora motivo di ricredersi.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.