Perché nell'operazione salva banche di Intesa San Paolo manca la variabile "mercato"
Il ritorno dell'"Ambroveneto". Così Guzzetti&Messina salvano il "sistema" e si sistemano dai guai di Atlante
Un aiuto a Intesa Sanpaolo? Il presidente Gian Maria Gros-Pietro è addirittura indignato. I 4,8 miliardi che il Tesoro prende dal debito pubblico e versa nel capitale privato della banca salvatrice (senza ottenere come corrispettivo né titoli di proprietà né interessi), non sono in alcun modo un sostegno pubblico. “Chi dice queste cose non ha compreso il meccanismo – spiega – Intesa prende a suo carico una quantità di debiti e prende a proprio vantaggio la parte sana degli attivi che non sono assolutamente sufficienti a pareggiare. Questo è il motivo per cui occorre un intervento dello stato”. Distinzioni così sottili sfuggono agli analisti del Financial Times e ancor più ai “falchi tedeschi” secondo i quali l’Italia ha messo l’unione bancaria “sul letto di morte” (Markus Ferber, deputato europeo della Csu bavarese). Per dimostrare quanto sia al di sopra di queste polemiche dozzinali, Intesa lancia un altolà al Parlamento: l’esito dell’operazione è subordinato a un’approvazione del decreto senza ostacoli, senza ritardi e senza cambiamenti. Il contratto, infatti, include una clausola risolutiva. Discorsi e toni da vincitori, insomma.
Ma il prof. Gros-Pietro, l’amministratore delegato Claudio Messina e azionisti di riferimento come Giuseppe Guzzetti con la Fondazione Cariplo adesso vogliono anche stravincere? Intesa Sanpaolo era l’unica banca in grado di togliere le castagne dal fuoco. “Ha le dimensioni, la struttura e il management per rendere redditizia la parte buona, ha le economie di scala, una migliore percezione degli operatori di mercato e si indebita a costi più bassi”, l’ha lodata Fabio Panetta vice direttore generale della Banca d’Italia. Tutti gli altri si sono tirati indietro resistendo ai tentativi di “persuasione morale”. Non è più il tempo in cui il ministro e il governatore alzavano la cornetta e tutti scattavano sugli attenti. Nel Veneto plaude il governatore Luca Zaia ed è contento anche il sindaco di Vicenza Achille Variati che è del Partito democratico e da giovane ha lavorato in banca. Il sistema nord-est s’è ripreso dalla crisi prima e meglio degli altri, ora viene ricompensato dai contribuenti di tutta Italia e da Intesa che già aveva una posizione di primo piano. “Non ne avevamo bisogno, possediamo già 800 sportelli senza Bpv e Veneto Banca – dicono a Ca’ de Sass quartier generale milanese già sede storica della Cariplo – Abbiamo reso un servizio al paese”. Dunque, Intesa come banca di sistema, unica erede di un glorioso passato che ritorna ogni qual volta l’Italia si ricorda di non essere una economia di mercato. Nessuno voleva un bail-in, anzi in Italia viene rifiutato il principio stesso che il dissesto di banche mal gestite venga pagato da chi lo ha provocato e da chi se ne è approfittato, non dai contribuenti. Si legge sul Corriere della Sera di Urbano Cairo, editore sponsorizzato proprio da Intesa: “Dopo tutto, che cosa sono 12 (o 18) miliardi spalmati a vario titolo tra 60 milioni di italiani, davanti agli 11 miliardi bruciati di valore azionario a spese di 210 mila soci delle banche? Tra le due equazioni semplicemente non c’è proporzione”. In mezzo, piuttosto, c’è una variabile "m" come mercato. Il risparmio è garantito dalla Costituzione, la quale, tuttavia, non garantisce affatto il risparmio mal impiegato.
Per Intesa è una rivincita dopo la sconfitta sulle Assicurazioni Generali. Ma quella era una operazione strategica (fino a una possibile fusione, si era detto), forse azzardata, però tale da rimettere in moto la finanza italiana, uno stagno marginale in Europa. Qui siamo tornati a un cabotaggio locale e difensivo. Intesa ha scelto un’altra strada rispetto a Unicredit e per molti versi soffre la sua eccessiva italianità. In cambio è solida, con un patrimonio superiore ai requisiti della vigilanza internazionale, buoni profitti ed elevati dividendi. Ed è fortemente radicata nel territorio dalla quale in fondo è scaturita: il lombardo-veneto. Con una singolare inversione dei ruoli. Nella nascita del Nuovo Banco Ambrosiano è stata determinante la Banca Cattolica con la quale Giovanni Bazoli ha creato l’Ambroveneto. Oggi l’erede di quel matrimonio salva quel che resta delle banche venete. Messina è un banchiere nato e cresciuto a Roma, dalla Bnl è passato all’Ambroveneto nel 1995, poi ha salito le scale interne; non pretende di abitare nella City e vuole giocare un ruolo di primo piano nell’economia italiana. Fin dall’inizio ha posto una condizione assoluta: l’operazione non doveva intaccare i dividendi (ha promesso 3,4 miliardi) e il capitale (al 12,8 per cento quello di vigilanza). Quindi, ha escluso tutti i crediti deteriorati e quelli ad alto rischio, i bond subordinati, i costi della ristrutturazione e le pendenze legali. Il Santander spende quasi 8 miliardi per ricapitalizzare il Popular e i contribuenti spagnoli non sborsano un euro. Intesa, che vale la metà della banca creata da Emilio Botín, mette avanti i suoi doveri nei confronti degli azionisti, i fondi di investimento, la Compagnia di Sanpaolo e la Fondazione Cariplo che hanno investito 100 milioni a testa nel fondo Atlante (Intesa a sua volta ha messo un miliardo). Tutte risorse bruciate dall’insuccesso della mitologica creatura ideata da Guzzetti e da Alessandro Penati. Insomma, una sorta di compensazione pubblica rispetto a un generoso salvataggio “di mercato” che non è riuscito per una serie di circostanze specifiche e di errori concreti, ma anche per una ragione di fondo: il mercato dove non c’è non si può creare con un gesto giacobino.