Con il soccorso alle banche venete cade la bugia dell'Europa matrigna
La flessibilità concessa all’Italia ha permesso di eliminare due banche decotte senza strappi alle regole. I precedenti
Se c’è qualcosa di cui prendere atto nella vicenda della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca è che le bistrattate regole europee non sono certo perfette ma alla fine funzionano, a dispetto delle critiche degli euroscettici militanti. Oggi, i due istituti veneti sono in liquidazione, ma il sistema bancario italiano è più sicuro. Lo stato ha rinunciato a fare il banchiere, il bail-in è stato evitato e il sistema muove verso la riduzione del numero di banche sul territorio invocato dalla Banca d’Italia e dalla Banca centrale europea eliminando dall’industria due aziende incapaci di stare sul mercato. La verità è che la narrativa anti Ue è così intensa e pervasiva in Italia da avere oscurato i margini di flessibilità esistenti nelle regole comunitarie, contrabbandate nella vulgata quotidiana come cieche, inutilmente rigide e fondamentalmente sbagliate. Per poi scoprire, come in questo caso (ma lo stesso potrebbe dirsi mutatis mutandis per i tetti al deficit del Patto di Stabilità), che non ci sono solo il famigerato bail-in o la risoluzione nuda e cruda nella normativa sui salvataggi bancari e l’Europa non è il luogo popolato dagli arcigni burocrati di cui si parla.
“Non sta a me dire cosa deve fare il governo italiano, ma c’è una certa flessibilità nelle norme”, ricordava qualche giorno fa la responsabile dell’Antitrust europeo, Margrethe Vestager. In base alla disciplina europea sugli aiuti di stato infatti l’intervento pubblico per consentire l’uscita ordinata di una banca dal mercato sulla base della legislazione nazionale è ammesso “purchè sia rispettato il principio del burden sharing (cioè che gli azionisti e i detentori di obbligazioni subordinate diano il loro pieno contributo, ndr) e l’entità bancaria effettivamente esca dal mercato in modo da minimizzare le distorsioni della concorrenza”. Principi questi, scritti non qualche settimana fa, ma scolpiti nella comunicazione bancaria emanata dalla Commissione nell’anno di grazia 2013. Non si capiscono dunque molte polemiche di queste ore. Non c’è stato uno strappo in senso lassista alle regole da parte della Commissione con la decisione del fine settimana, tanto meno un diktat, semmai il ricorso tardivo da parte italiana a una soluzione alternativa prevista dalle norme. Come ricordano al Foglio fonti vicine alla commissaria Vestager, lo schema di gioco della liquidazione pilotata “è stato applicato in passato in vari casi” ancorché periferici: due minori, come l’italiana Banca Romagna Cooperativa (la cui parte sana è finita a Iccrea) e la greca Panellinia Bank (confluita in Piraeus Bank), e uno maggiormente significativo, come il Banco de Funchal (Banif), settimo istituto portoghese che per dimensioni e tipologia di soluzione si avvicina al caso delle venete (ripulito e acquistato dalla partecipata portoghese del Santander dopo un generoso contributo pubblico).
La Vestager commentava così la vicenda Banif nel dicembre 2015: il pilastro su cui poggia la politica della Commissione è che “le banche non possono essere tenute artificialmente in vita col denaro dei contribuenti distorcendo la concorrenza”. Dunque, se non sono sostenibili né sistemiche, come certificato dalla Bce e dal Srb (Single Resolution Board) e come molti sostenevano da tempo nel caso dei due istituti veneti, meglio che escano dal mercato ricollocando in una cornice di mercato ciò che di quelle banche può efficacemente stare sul mercato. Che il governo e il ministro Pier Carlo Padoan abbiano lottato finché possibile, anche a rischio di perdere tempo prezioso (come in effetti è stato perso) pur di arrivare a una ricapitalizzazione precauzionale dalla quale il capitale privato si era prontamente sfilato, è forse comprensibile anche se alla fine si è rivelato inutile. Lo suggerivano ragioni di opportunità politica locale e nazionale, motivi di carattere occupazionale e di macroeconomia regionale. La conservazione di due antichi marchi che sono parte del panorama urbano delle città venete con i loro consigli di amministrazione, i loro collegi sindacali e via enumerando era motivo di orgoglio oltre che fonte di potere.
Con la liquidazione e la cessione a Intesa di pezzi di attività, tutto ciò sparirà gradualmente. Ma non si vede scorrere in terra veneta il sangue evocato da qualcuno. La liquidazione ordinata assicura la continuità dei rapporti bancari esistenti, i correntisti e gli obbligazionisti senior sono tutelati, gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati subiscono il burden sharing come nella ricapitalizzazione di stato, quelli retail sono indennizzati. I contribuenti pagano un conto che Padoan confida di limitare in una manciata di miliardi, che saranno ripagati con la liquidazione degli attivi secondo le stime della Banca d’Italia diffuse ieri. Il quotidiano tedesco Welt ha scritto, confrontando le soluzioni trovate per lo spagnolo Banco Popular e Mps, che “la politica è entrata nei salvataggi bancari” alludendo al trattamento di favore che l’Italia avrebbe ricevuto. Nessuno sa che cosa si sono detti Paolo Gentiloni e Angela Merkel nel faccia a faccia avuto a margine del G7 di Taormina a fine maggio. Secondo fonti vicine al dossier, l’apertura di Bruxelles alla soluzione di una liquidazione ordinata sarebbe frutto di un input esterno alla Commissione Antitrust.
Ma è anche vero che l’ipotesi di una liquidazione ordinata con Intesa in pista era in campo come “piano B” già da vari mesi. Certo, come ricordava ieri Simon Nixon sul Wall Street Journal, il clima in Europa è cambiato dopo le elezioni francesi e tutto sembra convergere verso una maggiore duttilità di Berlino sulle questioni europee, che potrebbe avere spinto a sfruttare tutti i margini di flessibilità esistenti nelle regole. Strappi alle regole stesse tuttavia non si intravedono.