Viaggio tra le aziende familiari italiane, scintille per la ripresa
La grande scoperta che il passaggio generazionale funziona solo se circola la vera benzina della vita: la fiducia. Reportage a puntate contro populisti e piagnoni
Esiste un vaccino pentavalente contro il populismo dei piagnoni & cialtroni, contro la grillogorrea diarroica dell’apocalisse annunciata e mai pervenuta, contro l’epica credulona del risentimento incompetente, contro l’etica snervante della sfiga perseguita altrimenti detta “decrescita felice” e contro l’estetica vanesia dei buoni a nulla in pensieri, parole, opere e perfino omissioni.
È un vaccino con due princìpi attivi: famiglie d’impresa. Funzionano a meraviglia non solo sulla febbre populista, ostinata e debilitante ma non inguaribile; hanno anche effetti ricostituenti sulla salute generale della società intorcinata e della politica letargica, perché portano idee che nascono dal lavoro quotidiano, energie positive, mentalità costruttive e prassi efficaci per affrontare la fase nuova della crisi che oggi sembra “non finire mai di finire” (copyright Stefano Cingolani).
Unica condizione, non banale come appare: devono funzionare.
Antefatto. Con la morte di Bernardo Caprotti verso la fine dell’anno scorso partì su tutti i media una grandinata di dramas da palinsesto tv on-demand per raccontare ogni casino delle dinastie imprenditoriali, sgranando spietatamente il rosario dei tormenti tra fondatori e successori: House of Esselunga, Game of Porsche, Bmw Damages, The Luxottica Affair, How I Met Your Mother Margherita, Lost in L’Oréal… Tutti a godere come ricci malevoli delle varie sfighe dei ricconi. Una global corporate soap-opera con protagonisti meravigliosamente umani, troppo umani, stellari cast in appassionanti e inesauribili intrecci d’amori, guerre, corna, lenzuoli, tregue e matrimoni: a ognuno la sua saga! E va bene, ok, una saga non si nega a nessuno, come no, è anche un buon segno visto che una volta c’erano solo “Dallas” e “Dinasty” (e ovviamente “Anche i ricchi piangono”); eppure tafferugli e fallimenti sulla successione lasciano un po’ l’amaro in bocca, come un bellissimo film con un finale un po’ così, appeso. Gente di valore spesso immenso che conquista il mondo e lo ribalta pure, ma poi inciampa o addirittura si schianta nel passaggio generazionale. La statistica non ha pietà: con la seconda generazione l’azienda fallisce nel 75-80 per cento dei casi; e mentre nell’ultimo secolo l’aspettativa di vita umana si è allungata da 30-40 a 70-80 anni, quella aziendale si è accorciata da 40-60 a 10-20.
Domande. Insomma, passare il fuoco non è una sciocchezzuola da firmare davanti al notaio, è un’impresa colossale, forse maggiore della genesi dell’azienda. Così saltano fuori domande: ma chi ce l’ha fatta, come accidenti ci è riuscito? Momento pericoloso per chi il fuoco l’ha acceso: come passarlo senza rimanere al freddo? E pericolosissimo per chi il fuoco lo riceve: come prenderlo senza bruciarsi visto che non è, non sarà e mai dovrà essere come il fondatore? Domande non proprio da poco, visti i tanti casi(ni) d’insuccesso. E fondamentale per l’Italia, dove oltre l’85 per cento delle aziende sono di tipo famigliare, coprono il 70 per cento dell’occupazione e – notizia – reggono meglio la crisi. Oggi il problema è la paura, come ha detto il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, a questo giornale: i nostri papà hanno avuto vite difficili, ma anche il coraggio di cogliere opportunità; oggi invece siamo bloccati. Faceva l’esempio su se stesso: dopo due figlie e la carriera, in un sussulto di gioventù riprese la moto ma vide che in curva non piegava più come prima, troppa paura di cadere e… cadde. Così oggi l’Italia: paralizzata. Boccia ha lanciato idee sacrosante su burocrazia e competitività, ma possono non essere sufficienti: perché oltre a togliere i macigni dalla strada, bisogna inventarsi come togliere i macigni dal cuore. Anche se avvenisse il miracolo di un’Italia che ama le sue aziende, poi tocca alle aziende correre, e forte; e per correre forte non basta la strada libera, anche perché non lo sarà mai, e non basta la moto: ci vuole un pilota che spinga, anche sul rischio della curva. E il coraggio di prendersi il rischio di piegare in curva è l’impresa.
Le aziende famigliari sono il giusto habitat per ritrovare coraggio? Alesina e Giavazzi sul Corriere hanno mostrato un approccio lievemente sovietico: deportare le famiglie in un resort tropicale a godersi la proprietà e dare la gestione ai manager, tanto la probabilità che i figli siano bravi come il padre è minima. Davvero solo i manager salveranno le aziende famigliari cioè italiane? “Fatto salvo che devono lavorare i migliori, non c’è ragione di tagliare fuori a priori le famiglie: discutibile in teoria, inapplicabile in pratica,” dice al Foglio Guido Corbetta, ordinario alla Bocconi di Strategia aziendale e di Strategia delle aziende famigliari, che da trent’anni le studia. “Il consulente che per prima cosa dice alla famiglia di togliersi dalla gestione viene subito mandato a casa. Però a certe condizioni, ferree, la famiglia fa molto bene all’azienda”. L’ostilità alle aziende famigliari non è gratuita, però: spesso sono state riserve protette per i figli, degenerando in familismo, generando bamboccioni e minando la produttività. “Vero. Ma oggi come ieri sono moltissime le famiglie sane dove i figli sono lanciati nella mischia dell’impresa – aggiunge Corbetta – Per chi medita il passaggio, è prioritario il rispetto dell’azienda che ha creato e valutarne le necessità. Poi ci vuole il coraggio di valutare la propria famiglia: è adatta o no all’azienda?”. Fatal momento, e tormentoso: ma se poi la risposta è sì? “Bisogna essere ferrei perché non ci sono sconti: se una volta i figli del padrone potevano cavarsela, oggi la competizione è con multinazionali guidate da manager preparati. Se non sei bravo, ti distruggono”. Tra familismo e deportazione in un resort tropicale c’è quindi una terza via, che tiene in campo tutti gli attori: “Dando per scontato che la proprietà famigliare dev’essere unita, bisogna poi guardare solo le esigenze dell’azienda. E’ sempre difficile bilanciare proprietà e gestione, ma è una sfida che se viene accettata – e vinta – porta benefici enormi all’azienda e alle persone: è un passaggio durissimo, ma crea valore per tutti. I casi sono numerosi e diversi”.
Giretto. Così, spinti dalle domande, si è cominciato un giretto in Italia per vedere come si passa il fuoco. E più gente s’incontra più capita la stranezza che subito si smette di parlare della roba (non si parla mai della roba, in verità), e si parla di fuoco, di vita, di trasmissione di valore e di capitale che non è mai economico ma umano. Stranezza? Certo che no: It’s NEVER the economy, stupid, it’s LIFE! Contro la retorica grilliota dell’imprenditore brutto & cattivo si scopre che la nota dominante di chi accetta la sfida del passaggio non è mai l’attaccamento alla roba: un Gollum si fatica a trovarlo, tranne certo per la quota parte che spetta a ciascuno in quanto essere umano – ma visto che ogni umano contiene moltitudini, Walt Whitman docet mimando Agostino, bisogna sapere che per ogni quota parte di Gollum ci spetta anche una quota parte di Frodo (così la feroce battaglia tra le moltitudini per la conquista del nostro cuore è sempre aperta, e l’ultima parola su quale parte prendere è sempre nostra). Pochi Gollum in giro, quindi; e un sacco di gente invece con una visione del futuro che tra le infinite tonalità dei temperamenti ha la speranza come invariabile. La grande scoperta è che il passaggio generazionale funziona, salvando capra dell’azienda e cavoli di famiglia, solo se circola la vera benzina della vita: la fiducia. Chi pensa e prepara il passaggio lo fa perché in fondo vive la speranza, spesso implicita ma sempre attiva, sulla fiducia che la realtà in qualche modo porta reazioni positive: non esattamente secondo le aspettative – quasi mai – ma arrivano. E’ una sorta di pregiudizio positivo che alimenta una sostanziale gratitudine: una qualche forma di bene esiste, anche nelle difficoltà più grandi bisogna sia cercarlo (“è da qualche parte, muoviamoci”) che aspettarlo (“può arrivare da qualunque parte, attenti”). La corrente di fiducia & gratitudine è un circolo virtuoso che moltiplica le chance di durare.
Virtù. Non è romanticismo in contraddizione con la dura battaglia per il successo; soldi e relazioni e cervello e pelo sullo stomaco servono, come no, ma non sono mai la chiave. Che non è l’ottimismo, il “sole in tasca”. E’ qualcosa di molto più intimo, poderoso, stabile. Facendo qualche passo dentro le giornate di queste persone, si sente che possiedono il fuoco della fiducia e nel profondo sanno dire grazie (magari non sanno bene a chi, ma lo dicono). L’ottimismo è un sentimento che va e viene, la fiducia è una virtù che resta e muove: e grazie a Dio non è una dote naturale, una “qualità innata” che dipende dal carattere come la forza; è una “qualità acquisita”, uno sguardo del cuore e dell’intelligenza che si può solo imparare – è un fuoco da accendere, conservare, passare.
Questa inchiesta in più puntate va a conoscere chi affronta il passaggio generazionale, creando quel flusso luminoso di famiglie che nella mischia quotidiana fa l’impresa di vedere sempre e comunque una strada. E quando non la vede? Be’, facile: la costruisce. Stay tuned.