Un lustro con l'Ilva in catene
A cinque anni dal sequestro una lezione sui corpi intermedi (che non scappano)
Era dalla primavera, a seguito delle maxiperizie epidemiologiche e ambientali, che evidenziavano il nesso di correlazione tra la morte di una pecora in un pascolo adiacente all’impianto e l’inquinamento, che si attendeva quel momento. Il 25 luglio stavo andando a Torino in Alenia Aermacchi, ma il pensiero era a Taranto. Nel primo pomeriggio i mezzi dei carabinieri del Noe e della Finanza irruppero nello stabilimento per il sequestro dell’area a caldo (cuore di uno stabilimento siderurgico a ciclo integrale) dell’Ilva di Taranto e per notificare i diversi provvedimenti giudiziari nei confronti della famiglia Riva e di quattro dirigenti di fabbrica. Rientrato dopo le assemblee a Torino andai a Taranto. Gli operai – oltre 12.000 più altre migliaia dell’indotto – erano già in sciopero e in strada. Nulla era certo, tranne la preoccupazione di tutti che il tribunale di Taranto, quattro giorni dopo, il 31 luglio avrebbe chiuso per ferie (cosa che fu almeno parzialmente scongiurata).
Arrivai a Taranto e, con i ragazzi della Fim, risalimmo tutta la Via Appia fino alla città. Vi era una rabbia e una disperazione difficile da raccontare. Superato il ponte di pietra, il clima era diverso, le manifestazioni erano in mano alle associazioni ambientaliste e di qualche lavoratore. Il loro posizionamento era netto, “la procura fa bene a chiudere la fabbrica, perché Taranto deve avere un altro futuro”. In quella città – che ho avuto modo di conoscere l’anno precedente in cui fui, per 11 mesi, commissario della struttura – anche se pianti un albero nasce un comitato “contro”. Lo stazionamento dei media era collocato lì. Troppo contraddittori i “semplici” operai che invece dicevano “ci avete inquinato per anni, adesso anche il lavoro ci volete togliere?”. Organizzammo un’assemblea per la mattina seguente, alla portineria D, alle 8.30 in sciopero. Quelle volte in cui capisci che mettere in una scaletta sindacale un bla bla retorico non sia sufficiente. Davanti al palco fatto di ponteggi nel piazzale arrivarono 11.000 lavoratori. Palombella (Uilm), che proviene da quello stabilimento, ci chiese di concludere lui. Landini (Fiom) aprì l’assemblea. Io parlai dopo di lui. In ordine inverso di rappresentatività aziendale. Qualche applauso, poi iniziarono le grida dei lavoratori che volevano iniziare il corteo verso la città.
Finiti gli interventi ho avuto chiaro quanto fosse importante essere lì, a mostrare la faccia, anche se la rabbia poteva scagliarsi contro di noi. Partimmo in corteo, la Fiom rimase indietro: non voleva mandare segnali di ostilità alla magistratura. Continuo a non capire perché chiedere che la “giustizia” non facesse pagare il conto due volte ai lavoratori fosse “un atto ostile alla procura”. La magistratura fa bene a intervenire, sempre però e valutando la portata verso le persone che non hanno responsabilità delle decisioni assunte. Non può essere colpa dei lavoratori se a Taranto ambiente e sviluppo non hanno fatto passi avanti per l’incapacità di conciliare i due obiettivi, come accade altrove. A Taranto, hanno fatto fortuna il politico che ha appoggiato l’industrialismo ottocentesco, quello che considera inevitabile produrre e inquinare, e il politico ambientalista che considera la produzione, di per se, “un evento criminoso”. A Lintz, in Austria, i cittadini hanno votato politici capace di tenere insieme ambiente e sviluppo e l’impianto, a ridosso della città, non inquina. In Italia invece partì il conflitto tra i poteri dello Stato con nessuno capace o autorevoli a richiamarli a obiettivi comuni.
A Taranto, tuttavia, i cittadini hanno bocciato, in un referendum del 2013 l’ipotesi di chiusura dell’Ilva a cui partecipò solo il 19 per cento della città e il 9,7 per cento del quartiere Tamburi, la stessa sorte in tutte le elezioni amministrative, finanche quelle del giugno scorso, per i candidati benaltristi. E’ vero che la dissemina di sfiducia populista è un veleno, è vero anche che i politici stanno alla larga da situazioni così drammatiche, quando si rischia davvero. Un sindacalista che gira solo dove prende applausi è come un campione di nuoto allergico al cloro. Chi parla di disintermediazione, non so quale sindacato abbia in mente non sa che questo modo di fare sindacato è l’unica strada per dare contenuto e forma alla rabbia e alla disperazione. Da allora l’ambiente non ha fatto ancora grossi passi avanti, la fabbrica è ancora sotto sequestro e forse diventerà indiana all’interno del più grande gruppo siderurgico mondiale. In cinque anni, l’iter processuale, nel suo dibattimento, è appena partito questa primavera.