Perché è tempo di ripensare l'identità nazionale delle aziende
In un mondo in cui i capitali non hanno passaporto, la nozione eccessiva della sovranità nazionale non può coesistere con lo stato attuale dell’evoluzione economica
Roma. Giovedì il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire ha dichiarato che il suo paese nazionalizzerà il cantiere navale Stx a Saint-Nazaire dopo che il suo acquirente italiano Fincantieri non ha accettato di condividere la proprietà in modo paritetico. La disputa ha attizzato gli istinti sciovinisti della Francia e specularmente rivendicazioni nazionalistiche in Italia. Sono entrambe posizioni anacronistiche che alcuni media amano esaltare con resoconti a metà tra il tifo sportivo e il nazionalismo bellico. Ma la nozione eccessiva della sovranità nazionale è incompatibile con lo stato attuale dell’evoluzione economica: non può coesistere con la divisione internazionale del lavoro in un mondo in cui i capitali non hanno passaporto. Il numero delle imprese transnazionali è più che decuplicato dal 1960 a oggi. Il capitale e il relativo possesso di azioni non possono essere l’unico discrimine a determinare l’identità di una compagnia.
Anni fa nessuno avrebbe detto che i cantieri di Saint-Nazaire non erano francesi quando la maggioranza delle quote di Stx France era di un chaebol sudcoreano: lì vengono da sempre varate le navi della Marine national, con 2.500 addetti francesi, compresi ingegneri e progettisti, che affinano tecnologie militari. Così nessuno s’immagina di dire che Gucci non è italiana sebbene l’iconica casa di alta moda sia della francese Kering, oppure che Valentino sia cinese come il suo padrone, il fondo Mayhoola for Investments. Il carattere transazionale del capitalismo finanziario e industriale è rivelato dalle modalità con cui l’Ufficio Ricerche e Studi di Mediobanca ha condotto l’ultima indagine sui 50 principali gruppi italiani quotati in Borsa. Il rapporto non contiene più Exor perché ha trasferito la sua sede legale in Olanda, ma al contempo registra che la divisione italiana di Fiat-Chrysler Automobiles, di cui la holding della famiglia Elkann-Agnelli è principale azionista, è ai vertici della manifattura nazionale e prima azienda privata per fatturato. Mediobanca sostiene che il gruppo delle grandi imprese manifatturiere quotate e con sede in Italia è sempre più smilzo e con sempre meno imprenditori italiani. In contraddizione con l’insegnamento celebre del patron Enrico Cuccia – le azioni si pesano e non si contano – Mediobanca considera “perse” storiche società italiane. Come Pirelli perché è uscita dal listino di Borsa dopo che ChemChina, colosso pubblico cinese della chimica, ha rilevato l’65 per cento del capitale. Se l’azionista di maggioranza è cinese l’azienda però non lo è affatto. Il management, la sede, nel quartiere Bicocca di Milano, la ricerca e lo sviluppo sono italiani. La guida gestionale è, per patti tra soci, affidata all’ad Marco Tronchetti Provera, valorizzato dopo avere sposato, nel 1978, Cecilia Pirelli, figlia di Leopoldo, il capo della grande famiglia industriale durante il suo periodo di massima espansione negli anni ’80-’90 con acquisizioni nei pneumatici, dalla tedesca Metzeler all’americana Armstrong.
Pirelli ha tratto vantaggio dalla partnership cinese aprendosi la strada nel mercato asiatico, mentre ChemChina si allea con un marchio riconosciuto a livello internazionale come sinonimo di innovazione tecnologica. Pirelli lavora in partnership con Ferrari, Maserati e Lamborghini ed è fornitore esclusivo della Formula 1. Per ribadire l’identità del brand in vista del ritorno in Borsa in autunno ha appena riunito gli ambasciatori italiani al Pirelli HangarBicocca, regalando loro pneumatici tricolore per le auto di rappresentanza. Le partnership con società estere possono migliorare la competitività: da quando Telecom Italia è controllata e gestita di fatto dalla francese Vivendi la spesa per investimenti è ai massimi storici. Oppure incrinare la perfomance: Luxottica si è fusa con la Essilor per unire la propria sapienza nelle montature di occhiali con quella francese nelle lenti, ma le aspettative ridotte di ricavi dell’azienda transalpina pesano ora sul titolo della società di Leonardo Del Vecchio. Ma in ogni caso l’identità nazionale non dipende dal colore del capitale.