Volete uscire dall'euro? Ecco l'incubo garantito nel quale piombereste
L'economista e presidente di Société Générale Lorenzo Bini Smaghi e "la tentazione di andarsene". Astenersi vittimisti
Uscire dall’euro? Provateci, non ci riuscireste nemmeno con un golpe. L’asse Parigi-Bonn nuoce all’Italia? Al contrario, è nel suo interesse. L’austerità ci ha fatto più poveri? Ma quale austerità, in realtà non c’è mai stata. Il declino italiano? E’ la produttività, stupidi. Lorenzo Bini Smaghi, economista, membro del consiglio direttivo della Bce dal 2007 al 2011, presidente di Société Générale, specialista nello sfatare i luoghi comuni euroscettici, con il suo saggio di recente pubblicato dal Mulino esce dalla finestra dell’economia per entrare nella porta della politica. Ma cominciamo dal titolo: La tentazione di andarsene. Andarsene dalla moneta unica, naturalmente, anzi dall’Unione europea nel suo insieme perché le due cose si tengono. La voglia matta è cresciuta durante la Lunga recessione e, ascoltando le marcette felliniane del circo politico-mediatico, s’è fatta irrefrenabile. Questo, almeno, prima di Emmanuel Macron, perché allo stato attuale nessun paese della zona euro vuole più mollare la moneta unica. L’Italia, dunque, macera il proprio malumore in splendida solitudine. Come mai? Per rispondere, Bini Smaghi cambia il punto di vista corrente, partendo non dall’irrilevanza, ma dall’importanza dell’Italia. “E’ impensabile che l’Europa riesca a rafforzarsi e a integrarsi ulteriormente senza che l’Italia risolva i suoi problemi – scrive – Non basta una leadership tedesca, ci vuole anche una leadership italiana. Contrariamente a quanto pensano i vittimisti, che abbondano nel nostro paese, il resto dell’Europa vuole un’Italia forte, leader, protagonista, fautrice di un progetto d’integrazione più compiuto”. Dunque, medico cura te stesso.
L’Italia in questi anni è stata una palla al piede, d’accordo. Ma è tutta colpa sua? Non è vero che i francesi non hanno mai rispettato i parametri di Maastricht e i tedeschi hanno salvato le loro banche alla faccia di tutto il resto? Bini Smaghi non nega errori e omissioni soprattutto da quando è scoppiata la grande crisi. Il vertice di Deauville il 18 ottobre 2010 con la passeggiata lungo mare tra Sarkozy e la Merkel e l’annuncio che anche gli stati potevano fallire, è stato “il punto massimo dell’asse franco-tedesco”, come ha commentato con sarcasmo Mario Monti. Non solo, la Germania risparmia troppo e non investe, ha accumulato un attivo “monstre” della bilancia con l’estero che impedisce la crescita europea. E’ una zavorra, anche se opposta a quella di un’Italia che non cresce e si indebita troppo. Tutto vero e lascia naturalmente scettici sulla possibilità di ballare il valzer europeo con Macron e la Merkel. La sfida resta ardua, ma “ci sono due modi per affrontarla. Il primo è da protagonista, portando avanti un’azione riformatrice dell’economia italiana tale da precorrere una più ampia azione di rafforzamento istituzionale dell’Unione, da cui tutti potranno trarre beneficio. Il secondo consiste nel cercare di guadagnare tempo, aspettando che la soluzione arrivi in ultima istanza da altri, e sperando che il cosiddetto vincolo esterno sopperisca alle debolezze interne”. E’ questa la colpa che Bini Smaghi rimprovera agli ultimi governi, anche a Matteo Renzi che pure è stato il primo a lanciarsi in riforme coraggiose.
Il libro snocciola i dati sul mancato risanamento delle finanze pubbliche. Il fatto che il disavanzo sia calato dal 3 per cento al 2,4 per cento del prodotto lordo tra il 2013 e il 2016 ha indotto alcuni a sostenere che ciò fosse il frutto di una politica rigorosa, forse troppo. Ma questa riduzione è dovuta alla diminuzione degli interessi sul debito pubblico italiano, grazie alla politica monetaria espansiva della Bce (soprattutto il Quantitative Easing). Nella seconda metà degli anni Novanta, prima di adottare l’euro, l’Italia pagava circa l’8 per cento del prodotto lordo di interessi sul debito (che era poco meno del 120 per cento del pil). Nel 2016 l’onere è sceso sotto il 4 per cento (mentre il debito è al 133 per cento del pil), con un risparmio di oltre 60 miliardi all’anno. Che fine ha fatto questo tesoretto?
Altro che austerità. In Europa non ce n’è stata molta di più che in America. Ciò vale anche per l’Italia, soprattutto dopo il 2013. La questione chiave per capire la crisi italiana è la produttività in continua diminuzione, mentre aumenta in tutti gli altri paesi, sia pure non come in passato. Alle tendenze che spingono verso una stagnazione di lungo periodo (come la demografia), s’aggiunge l’incapacità di utilizzare al meglio le nuove tecnologie, investire nell’innovazione, organizzare il lavoro in modo efficiente (l’Italia è il paese con il maggior numero di aziende “zombie”). Il ritorno alla lira, allora, sarebbe un rimedio peggiore del male. Ammesso che sia possibile.
Bini Smaghi illustra un percorso disseminato di ostacoli, per lo più insormontabili. Ecco il suo racconto da incubo: “La decisione dovrebbe essere presa nell’arco di un fine settimana, a mercati chiusi, senza che venisse anticipata a nessuno. Per evitare il collasso del sistema bancario, il governo dovrebbe imporre un limite giornaliero al ritiro di fondi, vietare l’apertura di conti all’estero, introdurre controlli sui movimenti di capitale. I detentori di titoli di stato italiani o di aziende italiane cercherebbero di disfarsene, contro depositi in euro, nel timore di subire una perdita una volta convertiti in lire, o di non essere rimborsati per il default della controparte. I tassi d’interesse schizzerebbero su livelli elevatissimi. Andrebbero sospese le nuove emissioni di titoli pubblici o privati. Il sistema bancario rischierebbe il collasso, non avendo più accesso al mercato monetario né al rifinanziamento della Banca centrale europea. Se l’Italia decidesse di uscire dall’euro, si innescherebbe sicuramente una fase di forte instabilità che richiederebbe massicci interventi da parte della Bce e delle altre politiche economiche. La sovranità monetaria ritrovata sarebbe comunque limitata e compensata dalla perdita di potere sulle altre politiche, a cominciare da quella fiscale e dalla gestione del debito pubblico”.
Un’analisi senza illusioni, anche se non senza prospettive, bisogna però superare un pregiudizio di fondo: “Uno degli aspetti che restano più difficili da capire agli esponenti politici, ma anche all’intellighenzia italiana, è il rapporto tra la Francia e la Germania. Il tentativo di insinuarsi tra i due, la volontà di schierarsi con l’uno per indebolire l’altro, la speranza che il rapporto si incrini sono il frutto dell’ignoranza e del provincialismo. Se l’Italia vuole avere un ruolo, questo deve essere complementare, non sostitutivo”. E’ questa la carta che Paolo Gentiloni dovrebbe giocarsi fin da adesso, nella prima fase della presidenza Macron, prima che Angela Merkel vinca per la quarta volta le elezioni il prossimo 24 settembre.