A 10 anni dalla “bomba” subprime la finanza non preoccupa più

Ugo Bertone

Nell'agosto del 2007 iniziava la Grande crisi. Oggi la nostra Borsa è la migliore al mondo, ma è davvero tutto finito? 

Il 9 agosto 2007 l’ufficio stampa di Bnp Paribas rilasciò uno dei più ermetici eppur drammatici comunicati stampa della storia finanziaria: causa “una complessa evaporazione di liquidità” la banca comunicava che sarebbero stati interrotti i riscatti delle quote sui fondi obbligazionari investiti in Abs, Ninja bond e altre sigle fino a quel momento sconosciute anche agli addetti ai lavori ma destinate ad accompagnare la Grande crisi, esplosa così all’improvviso ma destinata ad avere lunga durata, al punto che ancor oggi il pil dell’Italia – paese che allora sembrava immune dagli effetti più perversi del disastro, è ancora ben al di sotto dei valori di dieci anni fa. Eppure, dopo tanto penare, la finanza internazionale sembra essersi lasciata alle spalle quel disastro. Unico nella storia dei rovesci finanziari: al di là degli ingredienti tipici di ogni bolla, la crisi dei subprime si è distinta per la dimensione globale del fenomeno, capace di trasmettersi quasi in contemporanea dagli Stati Uniti alle landesbanken tedesche ai mercati cinesi.

 

Tutto questo, ormai, sembra appartenere al passato. Sui mercati regna la tranquillità, come dimostra il calo ai minimi storici del Vix, l’indice della paura che misura il nervosismo delle piazze finanziarie. Le banche americane hanno passato, senza eccezioni, il test più severo della Fed, che ha dato il suo placet a dividendi straordinari e buy back, già congelati negli anni bui. Tanta fiducia ha avuto un prezzo: circa 150 miliardi di dollari, tanto quanti ne hanno versati gli istituti di tutto il mondo alle autorità di controllo, specie americane (oltre 19 sono stati pagati da istituti europei) per penalità legate alla stagione dei subprime e dintorni. Ma il salasso, se si tiene di tutte le irregolarità contestate ai banchieri, salgono secondo il Financial Times all’astronomica cifra di 321 miliardi di dollari. L’Oscar delle penalità spetta a Bank of America (56 miliardi di dollari) davanti a Jp Morgan (27 miliardi) per non parlare dei colossi, da Bear Stearns a Lehman Brothers spazzati via dalla furia dei mercati. Una lezione dura per i conti del credito, assai meno per i banchieri. Si contano sulle punte delle dita i ceo finiti dietro le sbarre o quanto meno costretti a rimborsare i ricchi bonus incassati negli anni delle vacche grasse. Ma, al di là delle polemiche, la crisi ha senz’altro prodotto un terremoto che ha scosso dalle fondamenta il mondo del denaro. Ne sanno qualcosa le banche italiane, le ultime ad entrare in crisi, le ultime a uscirne, come è avvenuto un po’ ovunque, grazie all’intervento dello stato.

 

Ma è davvero tutto finito? E’ arrivato il momento di voltar pagina, rimuovendo l’eredità di una malattia che ha richiesto l’uso di liquidità in maniera massiccia, inedita nella storia finanziaria? E’ l’opinione della Federal Reserve, decisa ad avviare già a settembre la riduzione della liquidità creata in questi dieci anni (4.500 miliardi di dollari). Qualcosa del genere, sotto forma di tapering, potrebbe annunciare tra meno di due settimane a Jackson Hole un riluttante Mario Draghi, consapevole che per l’Italia è davvero difficile fare a meno della medicina degli acquisti di titoli da parte della Bce. Ma a favore del presidente della Bce, per paradosso, gioca l’attuale fase di rivalutazione dell’euro, che pure minaccia di mettere a rischio la ripresa dell’economia dell’Eurozona. Ma il primo effetto dell’euro forte è quello di ritardare l’uscita dal Quantitative easing: come si fa a stringere la politica monetaria quando una valuta corre verso i massimi? Di qui l’apparente paradosso che investe il mondo finanziario proprio nei giorni del decimo anniversario della crisi: scendono i titoli obbligazionari della periferia d’Europa, Italia in testa. Intanto Piazza Affari, a sorpresa, balza in testa alla classifica delle Borse mondiali. In parte per effetto della ripresa delle banche dopo una crisi interminabile, in parte come risposta alla ripresa superiore alle previsioni della nostra industria manifatturiera. Il regalo di compleanno, dieci anni dopo lo scoppio della Grande crisi, sta nella riscossa di una parte del settore manifatturiero. In attesa dei dati di giugno, in uscita in settimana, la ripresa è testimoniata dal rally del fatturato manifatturiero nei primi cinque mesi, salito del 4,7 per cento, spiega l’indagine periodica di banca Intesa, “grazie alla vivacità della domanda interna e al tanto atteso risveglio del canale estero”. Certo, il giro d’affari è ancora di ben 9 punti percentuale inferiori al picco del 2008, quando già si stava diffondendo il morbo della crisi, ma non si può non registrate una gradita, inattesa, novità: la ripresa, trainata anche dalla meccanica, regge alla rivalutazione dell’euro. A differenza di quanto avviene alla Germania dove, a sorpresa, a giugno sono calate sia la produzione industriale (meno 1,1 per cento) sia le esportazioni (meno 2,8 per cento) con un saldo comunque in aumento della bilancia commerciale a 22,3 miliardi (rispetto a 22 di maggio) più che altro derivante dalla caduta delle importazioni (meno 4,5). Secondo le stime Sentix, l’indicatore che misura gli umori dell’economia), il sentiment si sta raffreddando. Non è colpa, una volta tanto, della finanza bensì dei “trucchi” che emergono dall’intesa sleale tra i grandi dell’Auto per proteggere i diesel che provocano “una complessa evaporazione della fiducia” per dirla nella prosa dei comunicatori quando non amano comunicare.

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