Banca Etruria (foto LaPresse)

Come finiscono le relazioni pericolose tra banche e politica

Alberto Brambilla

Una lezione da Banca Etruria: i vertici avevano probabilmente avuto troppa fede nelle doti prodigiose della politica

Roma. Le relazioni pericolose tra politica e banche possono avere conseguenze negative di lungo periodo sia per la politica sia per il settore del credito. Un caso in cui la politica soffre l’intreccio è quello di Banca Etruria. La situazione di dissesto dello storico istituto aretino degli artigiani orafi non è mai sembrata particolarmente disastrosa per l’economia italiana. Ma è stata una spina nel fianco per il governo dell’ex premier Matteo Renzi in quanto il padre del suo ministro più in vista, Maria Elena Boschi, era stato prima consigliere d’amministrazione e poi vicepresidente, nominato qualche mese dopo l’insediamento del governo, a maggio 2014. Etruria era sotto attenta ispezione di Banca d’Italia già dal 2010 e nel 2013 ha prima concluso un aumento di capitale da 100 milioni sul mercato e poi ha raccolto 60 milioni con l’emissione di obbligazioni subordinate, che in seguito verranno colpite dalla procedura di bail-in. L’operazione, avallata dalle autorità di vigilanza, è sotto indagine della procura di Arezzo perché gli amministratori non avrebbero fornito alla Consob informazioni veritiere sui conti dell’istituto che all’epoca era quotato in Borsa. Nel 2015 Etruria viene commissariata da Banca d’Italia e a fine anno posta in risoluzione insieme ad altre tre banche e quindi venduta. Le conseguenze giudiziarie si vedranno, intanto in un filone d’indagine relativo alla buonuscita per un ex dirigente la posizione di Boschi potrebbe essere archiviata a settembre. Per ora si può ricavare una lezione dalla vicenda. I vertici di Etruria avevano probabilmente avuto troppa fede nelle doti prodigiose della politica: pensavano, tra le altre cose, che porre ai vertici il padre di un ministro avrebbe potuto aiutarli in qualche modo o a uscire dal marcamento stretto di Banca d’Italia o a trovare un istituto con cui fondersi. Dopotutto Boschi, ex dirigente Coldiretti, non era un banchiere e in fondo era in buona compagnia: solo due consiglieri su quindici avevano indiscussa esperienza pluriennale in materia bancaria. La nomina è stata invece un boomerang e ha sollevato uno scandalo infinito prima di tutto per motivi legati alla lotta politica.

   

I legami con la politica, invece, toccano le banche attraverso l’ordinaria amministrazione. Nello studio “Les Liaisons Dangereuses. Politically connected directors and the governance of banks”, riportato dal Sole 24 Ore, i ricercatori delle Università Bocconi e La Sapienza hanno analizzato i cda di 103 banche italiane (quasi tutte) tra il 2000 e il 2015, individuando quali membri hanno ricoperto cariche politiche prima o dopo il loro ingresso in cda. Il risultato è che più le banche sono legate a persone che hanno fatto attività politica, più sarà alta la quota di crediti deteriorati che hanno a bilancio perché hanno concesso credito anche per scopi personali o di partito a imprese o persone che non lo meritavano. Siccome il board può autorizzare prestiti sopra una certa soglia gli amministratori hanno in mano la leva critica e possono fare danni: i prestiti maggiori di 2,5 milioni contano infatti la metà del totale di quelli che non sono stati restituiti, dice lo studio.

  

Da quasi tre anni la vigilanza affidata a un organismo sovranazionale come la Banca centrale europea ha iniziato a sciogliere l’intreccio a suon di moniti e aumenti di capitale, che ad esempio hanno spinto alcune fondazioni, trait d’union con le istituzioni locali, ai margini degli istituti. Il processo è arrivato a manifestarsi al massimo in Unicredit dove tra i primi cinque soci ci sono fondi d’investimento esteri e l’amministratore delegato, Jean Pierre Mustier, è un manager francese, partito da Société Générale, che con la sua reputazione costruita nei consessi bancari mondiali ha realizzato l’aumento di capitale più grande nella storia di Borsa nel febbraio scorso. Senza chiedere quattrini alle fondazioni o agli obbligazionisti.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.