Partire, fermarsi, ripartire. Ritratto di Neri, un’eccellenza italiana diventata famosa in tutto il mondo grazie a una luce
Il sogno di Domenico Neri nel 1962 era di fare innamorare tutti di un lampione. Perché non gli bastava che un palo della luce e il suo lampione facessero luce, voleva anche che fossero belli. Sintesi millimetrica di cosa sia il cuore del made in Italy e di come un po’ ci si accorga e insieme un po’ si crei una nicchia di mercato.
Oggi la Neri è un luxury brand della luce e dell’arredo urbano che realizza qualunque richiesta lavorando per ingegneri, architetti e lighting designer di ogni parte del mondo. “Tutto il catalogo è customizzabile, fino a mettere in produzione pezzi unici”, dice Isacco, il nipote di Domenico, che guida l’azienda. “Però cambiamo continuamente. Per esempio: il mercato italiano oggi chiede grandi quantità a basso costo per sostituire l’illuminazione stradale con i led. Noi ovviamente dobbiamo esserci altrimenti saremmo fuori mercato, ma ci siamo a modo nostro: abbiamo fatto un elemento di design a basso costo, candidato al Compasso d’Oro”. Sede e produzione tutta italiana, 30 milioni di fatturato, 140 dipendenti, sedi operative a Dubai, Miami, Bangalore e da settembre Parigi.
Dubai Water Canal
Si chiama Neri.
È un luxury brand. Trenta milioni
di fatturato,
140 dipendenti,
sedi operative a Dubai, Miami, Bangalore
e da settembre Parigi. Una crisi che ha quasi affossato un gruppo. Un'idea che lo ha riportato in alto, grazie a una complicità
tra un padre e un figlio
“Ho sempre voluto lavorare in azienda e ho disegnato il percorso di studi migliore per essere pronto a guidare. Ho fatto ingegneria, un percorso in Hera, nella società di consulenza Bayne&Company, un master in Economia a Wharton (una delle Ancient Height dell’Ivy League, nda) con l’idea di rimanere un po’ là. Solo che sentivo regolarmente mio padre e le cose andavano male, molto male”. “E andavano male per un errore che ho fatto io”, dice suo padre Antonio, presidente: “Ero leader in Italia, ma non riuscivo a svilupparmi all’estero. Poi era il periodo in cui si diceva che piccolo è brutto e che le aziende familiari dovevano aprirsi. Così nel 2001 faccio il salto ed entro in un grande gruppo per metterla in un ambiente strutturato, una federazione di aziende, come dicevano. Ma appunto ‘dicevano’: erano solo parole. Le premesse sulla carta c’erano tutte”. Antonio è un uomo gentile, di una serenità sconfinata, ma qui ha una piccola sospensione, sembra quasi d’avvertire un lievissimo singulto, come qualcosa che va di traverso. Un sorriso, come per scusarsi: “Fa male ammetterlo, ma è stato un errore. Tecnicamente è stata una fusione: consegno l’azienda in cambio di una percentuale del gruppo e rimango amministratore delegato. Però è un’illusione: sei lì ancora al tuo posto, ma in realtà non puoi fare più nulla”. Altra impercettibile pausa, nuovo sorriso: “Ci stavano rubando l’identità, non eravamo più noi stessi: il prodotto e le persone non erano più il centro che invece era occupato dalle tensioni del gruppo, dalle trimestrali maledette, dai manager calati dall’alto, da mille e uno problemi che ti allontanano da quello che devi essere: il prodotto e la gente. Con la crisi esplode tutto: siamo in perdita e non abbiamo cassa. Lì penso che stiamo per perdere l’azienda, ma in realtà l’avevo già persa nella fusione”. Così Isacco torna nel 2009: “Mio padre non ha mai forzato, ma ho sentito che dovevo tornare perché o lasci che il libro lo scriva un altro e poi accetti quello che ti scrive, oppure prendi la penna e il libro provi a scrivertelo da solo”. Si cerca di fronteggiare l’emergenza dell’immediato assieme alle esigenze del lungo termine. La salita è complicatissima, ma la chiave è sostituire la marea di prime linee messe dal gruppo e portare davanti le seconde e le terze, quelle che effettivamente facevano il prodotto e l’azienda. “La cosa più difficile però era rincuorare le persone, perché dopo anni che stai male poi ci vuole tempo per rimettersi. Dopo la diffidenza hanno cominciato a capire che quello che mi interessava era solo l’azienda, non qualche strana-cosa-che-non-posso-dire-ma-è-una-cosa-del-gruppo, come dicevano i manager prima. Ora vedi gente contenta: tanti dipendenti che non erano mai usciti da qui oggi li vedi parlare inglese, partire, gestire il lavoro all’estero”. Per due anni lottano giorno e notte per rimanere a galla e insieme trovare il modo di ricomprare, proprio nel mezzo della crisi che in questo momento da nemica si trasforma in alleata. “Parlo col senno di poi, ovvio, però è così”, dice il padre: “Con la crisi il gruppo comincia a saltare e in questo smantellamento si creano le condizioni per ricomprare. Ma senza mio figlio, non saremmo riusciti a fare la separazione”. Nel 2012 finalmente ricomprano l’azienda anche grazie alle banche locali che credono nel progetto “che in quel momento poteva apparire esagerato, poi però l’abbiamo rispettato alla virgola.” racconta il figlio. “E facendo i salmoni – cioè tutto il contrario di quello che sta tuttora facendo il settore, fondersi nei gruppi – siamo tornati familiari. E ci siamo sbloccati quando abbiamo capito che dovevamo semplicemente essere quello che siamo: bellezza e cura. Dei prodotti e delle persone. Così oggi possiamo dire che siamo una start up con 50 anni di storia, e che non siamo una family business ma un business di famiglie: l’azienda gira grazie alla gente che ci lavora, non solo grazie a noi”.
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Isacco Neri con alcune persone del reparto Ricerca e Sviluppo
Il momento è stato tostissimo, ma il passaggio facilissimo: “Era chiaro che tornavo per guidare. E dopo un periodo duro c’era bisogno di una nuova fase. L’input me l’ha dato un mio amico, ceo anche lui, che nel momento più difficile mi ha chiesto se avevo un gruppo con cui sarei andato in capo al mondo. Risposi di sì, solo che era un numero molto grande, troppo: dire tutti è dire nessuno. Quindi ho costruito quel gruppo”. La conferma arriva con una delle più grandi aziende del mondo che costruisce un nuovo campus. “Il nostro marketing essenzialmente è basato sul vieni&vedi: sì, ti parliamo del prodotto fantastico che facciamo, ma soprattutto vieni in azienda e vedi come lo facciamo”. Quando vincono la gara, Isacco chiede perché: loro rispondono che hanno respirato qualità, competenza e conoscenza, e poi perché la gente lavora in modo diverso, sembrano amici. “Significa che ci siamo: è tutto così maledettamente difficile e così esaltante, tutto da riconquistare ogni giorno, condividi talmente tanto di te stesso, che alla fine con le persone con cui lavori o sei già amico o lo diventi. Chi viene qui, infatti, o vai via dopo poco o rimane per sempre”. E da Domenico che oggi ha 94 anni e fa lo scultore, ad Antonio che ne ha 65, fino a Isacco che ne ha 39 (“ma gli ultimi 5 li conto come 15”), il sogno è sempre quello: fare innamorare tutti di un lampione.
Perché non esiste una ragione al mondo che sia una, per cui un lampione non debba essere bello. E non possa aiutarci ad amare di più ogni nostra città.
Domenico Neri