Farmaci per il paese
J’accuse contro il payback, l’ultima grande ganascia statale per le imprese italiane
Immaginate un’impresa che, aumentando il proprio fatturato, debba versare allo Stato la metà dell’incremento registrato da un anno all’altro. Oppure che, dopo aver lanciato un nuovo prodotto, nel primo anno di vendita debba corrispondere all’erario la metà di quanto incassa. In entrambi i casi, i pagamenti vanno ad aggiungersi a tutti gli oneri fiscali e contributivi, come noto già piuttosto elevati in Italia. Direte voi, uno scenario da incubo e, con tutte le storture del nostro sistema economico, di certo non applicabile in Italia. Eppure questo è il regime al quale sono sottoposte dal 2013 le aziende farmaceutiche che vendono medicinali agli ospedali. O meglio, ne è una versione perfino edulcorata. Perché il meccanismo del payback, che impone per l’appunto alle aziende di contribuire per il 50 per cento al ripiano dei tetti di spesa farmaceutica ospedaliera, funziona in maniera ben più cervellotica di quella che, per ragioni di brevità, è stata descritta.
Normale che le aziende interessate, quasi tutte a capitale estero, alcune delle quali tra i principali investitori stranieri nel nostro Paese, fin dal primo momento si siano ribellate contro questo strumento. Il TAR del Lazio ha dato largamente ragione a queste aziende, una prima volta nel 2015. La vittoria fu talmente netta che l’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, scelse di non fare ricorso. Ma intanto lo strumento aveva già scavato un solco profondo nei bilanci delle Regioni, che contavano su quelle risorse per mantenere in equilibrio i propri bilanci. Basti pensare che, senza il payback,sarebbero venuti a mancare per il 2013 370 milioni di euro, per il 2014 488 milioni di euro e per il 2015 769 milioni di euro. Di fronte allo stallo venutosi a determinare a causa del contenzioso, che non consentiva né alle Regioni né alle aziende di chiudere i propri bilanci per ben 3 annualità, è intervenuto il legislatore che un anno fa ha disposto che l’AIFA richiedesse alle aziende il 90 per cento della cifra spettante per il 2013 e il 2014 e l’80 per cento di quella dovuta per il 2015.
Dunque, in cambio dello sconto, le aziende avrebbe dovuto seppellire l’ascia di guerra. Una (parziale) buona notizia subito oscurata dall’estrema volatilità delle richieste di AIFA, che dovette rifare i calcoli nello spazio di pochi giorni sulla base di dati largamente incompleti messi a disposizione dalle Regioni. Secondo un recentissimo studio di I-Com, basato sui dati forniti da un campione di aziende rappresentativo di più di un terzo del mercato, tra la prima e la terza richiesta che AIFA fece pervenire, in base a diversi conteggi, si è arrivati a uno scostamento medio del 74 per cento per il 2015. Le aziende che si sono affrettate a comunicare alle proprie case madri una cifra in un tale giorno, hanno scoperto a distanza di poche decine di ore di doverne pagare una totalmente diversa. Con tanto di figuraccia del sistema Italia nei confronti degli stessi headquarter ai quali spetta allocare gli investimenti in produzione e ricerca tra i diversi mercati.
Anche in questo caso, non stupisce che le aziende abbiano fatto partire per la seconda volta una gragnuola di ricorsi e che il TAR abbia sospeso l’esecutività delle richieste dell’AIFA, in attesa di giudicarle nel merito. La relativa udienza, calendarizzata a luglio, è stata rinviata a data da definirsi perché l’AIFA, che non vuole soccombere in giudizio, sta provando a trovare una transazione con le aziende. Posto che si riesca a chiudere la partita 2013-2015 e che regioni e aziende possano chiudere bilanci lasciati in sospeso da ben tre anni, rimane da definire il futuro. Nel quale, come ormai largamente auspicato, occorrerà trovare altri meccanismi di controllo della spesa. Lasciando il payback agli incubi di chi lo ha vissuto.
Stefano da Empoli è presidente di I-Com