I successi del sud sono una lezione per i neo separatisti italiani
La ripresa del Mezzogiorno (che c’è) la si spiega in due modi: storia e crescita. Un gran libro anti fake news
Nel suo recentissimo volumetto (di poco più di 160 pagine, edito da Donzelli) – La questione meridionale in breve – Guido Pescosolido (che a questo problema ha dedicato molti anni di ricerche e di studi) ricorda che, a partire dal decennio settanta del Novecento, correnti storiografiche molto critiche verso lo Stato liberale hanno sostenuto che fu quello Stato a creare, a partire dal 1860-61, le condizioni di inferiorità economica e civile del Mezzogiorno rispetto al Nord, interrompendone uno sviluppo brillantemente avviato, e riducendo la popolazione del Sud alla miseria e all’emigrazione. Questa tesi è stata rilanciata successivamente dalle frange più accese di un neo-borbonismo abbarbicato al mito di primati del tutto immaginari del Mezzogiorno preunitario, che i piemontesi e lo Stato unitario avrebbero distrutto.
Contro queste favole i dati statistici di cui disponiamo attestano che nelle regioni Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria, intorno al 1857 erano installati circa 350.000 fusi di cotone, mentre nel Regno delle Due Sicilie erano circa 70.000; nel 1866 i telai di lana erano 4.450 nelle regioni del Nord, contro i 1.640 del Sud; nel 1861 gli occupati dell’industria metalmeccanica erano 7.231 nel Nord, contro 2.500 nel Sud; nel 1866 la produzione di cuoio era di 8.209 tonnellate nel Nord contro 4.083 nel Sud; la produzione di ferro era di circa 17.000-18.000 tonnellate al Nord contro circa 1.500 al Sud.
Naturalmente questi dati vanno letti nel quadro della generale arretratezza dell’Italia presa nel suo complesso, che non era un’area industriale. Basti pensare che nel 1861 l’Inghilterra produceva 85 milioni di tonnellate di carbone all’anno, la Germania 18,7, la Francia 9,4, mentre la produzione italiana era di 34.000 tonnellate. Per quanto riguarda l’industria manifatturiera, nel 1869, nel settore dei pettinati di lana, contro 10-12.000 fusi in Italia, ne erano impiantati 1,4 milioni in Inghilterra. Nella filatura del cotone i 453.000 fusi installati in Italia erano ben poca cosa di fronte ai 30 milioni di fusi dell’Inghilterra e ai 5,5 milioni della Francia.
Tutto questo va tenuto presente, per non adottare una prospettiva storica sbagliata: e cioè che l’Italia del Nord fosse il paese di Bengodi, pronto a divorare il Sud. In realtà, come Pescosolido mostra bene, l’unificazione italiana del 1861 ebbe luci e ombre, ma, appunto, anche luci. E’ vero che per il Mezzogiorno aumentò il carico fiscale rispetto alla tenue fiscalità borbonica. E’ vero che l’estensione al Mezzogiorno del regime doganale liberista significò l’abbattimento dall’oggi al domani dell’80 per cento della barriera protettiva rispetto alla concorrenza estera (entrò così in crisi buona parte del già modesto apparato industriale meridionale sia nel settore siderurgico, cantieristico e meccanico, sia in quello della lana e del cotone). E’ vero che con la vendita dei beni dell’asse ecclesiastico ci fu un drenaggio di capitali dal Mezzogiorno al Nord: ma questo fenomeno si rivelò un fattore di positiva trasformazione delle campagne del Mezzogiorno, perché gli acquirenti di quei terreni furono per lo più esponenti della borghesia agraria meridionale, che ne elevarono, con ulteriori investimenti, produttività e redditi, con ricadute positive per l’intera agricoltura del Sud. Sicché si può dire che nei primi decenni post-unitari la crescita della produzione agricola del Mezzogiorno fu pari, o di poco inferiore, a quella del Nord, grazie alle colture specializzate; e che in termini di reddito pro capite il divario Nord-Sud rimase sostanzialmente invariato nel primo ventennio unitario. Inoltre, il Sud progredì in misura apprezzabile anche in alcuni aspetti fondamentali della vita civile: nella lotta all’analfabetismo, e soprattutto nella dotazione di infrastrutture ferroviarie, nella quale il recupero rispetto al Nord fu cospicuo. Nel 1866 la rete ferroviaria meridionale raggiunse i 4.000 km contro i 184 del dicembre 1861, e anche se quella settentrionale era passata nel frattempo da 2.336 a 8.080 km, ora il rapporto era di 2 a 1, mentre nel 1861 era di 13 a 1.
Una vera e propria svolta ebbe luogo nel 1887, con l’adozione da parte dell’Italia della tariffa protezionistica, che introdusse un forte dazio sulle importazioni di grano e sui principali prodotti industriali: la componente più dinamica della imprenditoria agricola e l’intera società meridionale pagarono un pesante tributo. Il crollo delle esportazioni causato dalla guerra commerciale scatenata dalla Francia colpì l’olio di oliva (che scese dai 641.000 quintali esportati nel 1887 ai 378.000 del 1890), gli agrumi (che dai 2,3 milioni di quintali del 1887, crollarono a 1,4 milioni di quintali del 1891), il vino (le esportazioni si dimezzarono nel giro di un anno da 3,6 milioni di ettolitri nel 1887 a 1,8 milioni nel 1888, e poi si dimezzarono ancora fino a 936.000 ettolitri nel 1890). Una catastrofe, dunque, per il Mezzogiorno. Inoltre, esso fu costretto ad acquistare i prodotti industriali del Nord a prezzi più alti rispetto a quelli dei prodotti stranieri sottoposti al dazio. Per la prima volta dall’Unità il pil meridionale ebbe un periodo di flessione e solo nel 1896 toccò nuovamente il livello del 1887.
Su tutto ciò è stata scritta, come è noto, una vasta letteratura. I maggiori meridionalisti (Giustino Fortunato, Antonio De Viti De Marco, Gaetano Salvemini) criticarono acerbamente la svolta protezionistica. Dissentirono però dalle posizioni antiprotezionistiche Napoleone Colajanni e poi Francesco Saverio Nitti (a partire dai primi anni del Novecento). Pur convenendo che il protezionismo svantaggiasse il Mezzogiorno e favorisse il Nord, essi lo ritenevano tuttavia una scelta assolutamente obbligata per garantire l’avvento di un processo di industrializzazione al Nord, nel superiore interesse della collettività nazionale e (in prospettiva) dello stesso Mezzogiorno. Magra consolazione questa, certo, per gli oltre quattro milioni di italiani) che dovettero emigrare nelle Americhe: l’esodo migratorio in assoluto più imponente dell’intera storia d’Italia e uno dei maggiori della storia d’Europa.
Negli anni successivi i governi italiani realizzarono grandi interventi nel Sud: nel 1904 la legge speciale per l’incremento industriale di Napoli, che portò alla creazione dello stabilimento siderurgico di Bagnoli; la legge speciale per la Basilicata (1902), per le province meridionali (1906), per la sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani (1911). Furono costruiti altresì l’acquedotto pugliese e la direttissima Roma-Napoli. Tutti questi sforzi per favorire l’industrializzazione e creare infrastrutture e servizi, non modificarono però la differenziazione tra un Sud eminentemente agricolo-commerciale e un Nord industriale: tale differenziazione divenne un dato sistemico.
E’ superfluo dire che la prima guerra mondiale danneggiò enormemente il Mezzogiorno; che il fascismo non “risolse” affatto la questione meridionale, come pure proclamò, bensì la aggravò con la sua politica demografica, che aumentò lo squilibrio popolazione-risorse.
In realtà, un intervento massiccio, di straordinaria ampiezza, nel Mezzogiorno fu compiuto nel secondo dopoguerra dai governi democratici-cristiani coi loro alleati laici (a partire dai governi De Gasperi): attraverso la riforma agraria (che ebbe molti limiti, ma che liquidò il vecchio ceto latifondistico, che aveva sempre avuto un ruolo fondamentale); attraverso la Cassa per il Mezzogiorno (che realizzò bonifiche, irrigazioni, infrastrutture e opere pubbliche in genere, istruzione di base e tecnico-professionale). La Cassa, dice Pescosolido “superò qualunque precedente nella lotta a quello che al momento dell’Unità si era rivelato il maggior fattore di inferiorità del Sud rispetto al Nord, ossia la scarsa dotazione di capitale fisso sociale e il basso livello di sviluppo civile, in particolare in materia di infrastrutture e alfabetizzazione”.
I risultati di questa politica verso il Mezzogiorno furono straordinari. La modernizzazione delle strutture civili avvenuta negli anni cinquanta e sessanta, oltre che favorire lo sviluppo dell’agricoltura e dei consumi, creò i prerequisiti essenziali per l’adozione, a partire dal 1957, di una linea strategica specificamente industrialista. Furono gli anni della motorizzazione di massa, alla quale anche il Mezzogiorno partecipò. E se il chilometraggio della rete stradale del Mezzogiorno era rimasto sostanzialmente invariato tra il 1910 e il 1951 (da 42.628 a 42.897 km), ora i km di strade costruite nel Sud furono quasi 5.000 (nel 1959 l’estensione della rete meridionale giunse a 47.528 km), il che significava un aumento senza precedenti, in così pochi anni, sia in assoluto che per unità di superficie. Non restava quindi che la carta di una spinta straordinaria anche all’industria, carta che fu giocata con la legge n. 634 del 1957, che introdusse una serie di incentivi (credito agevolato, contributi a fondo perduto, agevolazioni fiscali) e l’obbligo per le imprese a partecipazione statale di riservare al Mezzogiorno almeno il 60 per cento dei nuovi investimenti e non meno del 40 per cento degli investimenti complessivi. Nacquero così nel Mezzogiorno aree di sviluppo industriale e nuclei di industrializzazione che furono stimolati anche da successivi provvedimenti, che trovarono la loro applicazione negli anni di massima crescita industriale che l’Italia abbia mai conosciuto (il boom della fine degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta). In Puglia con il centro siderurgico di Taranto e i complessi chimici e petrolchimici di Brindisi; in Sardegna con gli stabilimenti chimici, petrolchimici e cartari di Cagliari, Sassari e Porto Torres; in Sicilia con le raffinerie di Gela e Siracusa; in Campania con le aree di sviluppo di Caserta, Napoli e Salerno, e con i nuclei di industrializzazione di Avellino e Benevento, si ebbe una crescita consistente delle attività industriali, che modificò in misura significativa la fisionomia produttiva dell’intero Mezzogiorno.
Questa trasformazione fu gravemente danneggiata da avvenimenti successivi: l’interruzione del boom economico a causa di una dinamica salariale che, alla fine degli anni sessanta, superò notevolmente la produttività, mettendo in crisi le aziende (il salario fu definito una “variabile indipendente”, e su questa idiozia giuravano i nove decimi della sinistra italiana); la crisi petrolifera iniziata nel 1973; e, in anni a noi più vicini, il disastro della riforma del titolo V della Costituzione, che cacciò l’Italia nel tunnel di una legislazione concorrente fra Stato e regioni, che resta ancor oggi uno degli ostacoli più ingombranti sulla via della modernizzazione del Paese; e poi la terribile crisi economica iniziata nel 2008.
E tuttavia, quanto è stato seminato nel Mezzogiorno non è andato perduto. Se è vero che – come Pescosolido mette in rilievo nel suo libro, e come ha illustrato di recente su “Il foglio” del 3 agosto u.s. – dal 2015 il pil pro capite del Sud ha ripreso ad aumentare più di quello del Centro-Nord. Ha confermato tale superiorità nel 2016, e conferma una crescita anche nel 2017. Con due elementi di solidità che non vanno persi di vista. Il primo è che la ripresa del pil è stata accompagnata anche da un leggero aumento dell’occupazione. Il secondo è che, per la prima volta in misura consistente dagli anni novanta del secolo scorso, c’è stata una ripresa degli investimenti privati che ha compensato la contrazione degli investimenti pubblici.
E’, questa, la smentita più efficace delle posizioni di coloro (ai quali sembrano aggregarsi i “pentastellati”) che ripetono che l’Unità italiana ha significato per il Sud solo e soltanto sventura. La verità è che l’unificazione della penisola nel 1861 ha sottratto il Meridione a un destino di depressione e di sottosviluppo, e lo ha fatto entrare stabilmente nella modernità.