Adelante, con juicio. Il successo di un'azienda passa da scatole e bar
“Azienda ricca, famiglia povera”. Dal nonno Giovanni che diceva di volere lasciare tutto allo zio prete fino a Gianluca. La storia di Carrera jeans, tra crisi e passaggi generazionali
Il nonno Giovanni, che si occupava di tutt’altro, un pomeriggio fece il giro dei nipoti per dare l’imprinting a tutti: “Caro mio, ti voglio tanto bene perciò quando muoio andrà tutto allo zio missionario in Congo. Stai tranquillo che non ti lascio niente”. Gianluca Tacchella esplode con risata luccicante a cento denti, un gigante di 49 anni e quasi due metri con spalle e bicipiti in sospetto di palestra: “Così il nonno ci sistemò tutti. E quando a qualcuno il successo dava un po’ alla testa, cantilenava: ‘azienda ricca, famiglia povera’ ma soprattutto ‘attenti che chi cade dalla montagna si fa più male di quello che cade dalla collina.’ Nessuno lo stava a sentire”.
L’azienda è la Carrera Jeans, leader del denim in Italia, fondata dal padre Tito con i fratelli Imerio e Domenico nel 1965 a Lugo di Grezzana, duemila abitanti fuori Verona in una zona talmente piena di torrenti e fabbriche di marmo che d’estate ogni tanto sembra di veder scintillare la neve (ma sono miraggi da colpo di calore) e che visse il suo lampo di celebrità quando a cavallo del millennio esibì la più alta densità di partite iva della nazione (nonché un numero pazzesco di suore e missionari, ma questo è un dato percepito): cuore di nord-est, insomma, che bada al sodo e tende a farsi prendere la mano dal lavoro. Cercando un nome sportivo e scattante i Tacchella s’ispirarono alla Porsche 911 Carrera uscita l’anno prima: e la gara cominciò. A differenza della 911 piena di problemi, però, i loro modelli vanno alla grande e la Carrera diventa il jeans italiano grazie a stile, gestione, comunicazione. “Ma il nonno non l’abbiamo capito finché non rapirono mia cugina Patrizia a 8 anni nel gennaio del 1990, vittima dell’industria dei sequestri”.
Un incubo che finisce 4 mesi dopo quando i GIS liberano la bambina. E’ la sveglia che insegna a volare basso: “Azienda ricca e famiglia povera, appunto. Se fai il contrario, diventi un diavolo e non hai futuro”. Il gigante Gianluca oggi è il ceo senza cravatta che in azienda ha cominciato a 15 anni nel più classico dei modi, caricando le scatole sui camion d’estate. “Anche oggi vado in magazzino e controllo le scatole”. Questo spiega i bicipiti. Gianluca ride: “No, sono dono di natura e tanto sport”. Solleva per un attimo il gomito, lo guarda poco convinto: “Che non riesco più a fare”. E parte un potentissimo schiaffo di malinconia al braccio che ci fa saltare sulla sedia: “Hanno visto tempi migliori”. (Sarà, ma spostare scatole funziona egregiamente: nella stanza pare di sentire ancora l’eco della botta). Ma se non è per i bicipiti, perché tutto sto furioso ‘scatolare’? “La scatola che va via è come ti presenti al venditore: se la fai da schifo, allora sei uno schifo. Anche se tutto il lavoro fatto prima è perfetto”. E la scatola che torna? “Dice quello che non vende. E dà qualche dritta per la stagione dopo”. Sembra un po’ troppo facile, questo metodo del magazzino. “Per ora non mi ha mai tradito. Nemmeno quello del bar”. Sarebbe? “Qualche anno fa gli stilisti dicono che va il jeans stretto. Bene: lo facciamo, ma vendicchia. Un po’ di tempo dopo al bar sento qualcuno non proprio giovanissimo che vuole la gamba stretta. Significa che la novità è nel sentire comune. Così aumento la produzione: e vendiamo”.
Bar e magazzino: molto pop e suggestivo, ma non è troppo bello per essere vero? “Ovviamente sono esempi, il processo è molto più complicato. Ma il succo è che devi osservare tutti i segnali in ogni punto della filiera. Questo segmento di moda è lento. Infatti abbiamo 50 anni di storia e vendiamo sempre tantissimo lo stesso tipo di jeans”. E l’innovazione? “La ricerca è tanta, ma non significa cambiare sempre e comunque. Miglioriamo la qualità senza cambiare il look”. Adelante, con juicio. “Esempio di oggi: un giorno scopro che i medici usano lenzuola all’aloe per ridurre le piaghe da decubito”. Gli occhi si fanno grandi, e la voce un po’ s’incrina d’emozione: “Contatto l’azienda e studiamo un jeans imbevuto di microcapsule d’aloe a lento rilascio”. Qui si confessa d’esser rimasti senza fiato... Non è un’idea fantastica? Molto adelante e molto juicio. “Abbiamo appena spedito il primo container per gli Stati Uniti, non ci eravamo mai riusciti”.
La storia di Gianluca che arriva al timone è una storia d’industria molto “sangue&arena”. Dopo molte scatole caricate sui camion e una laurea in Economia, va in Belgio a inizio anni Novanta nella grande distribuzione. Al rientro l’esperienza è utile, ma non frena il declino che fa esplodere la crisi di fine decennio: “Si vendeva sempre, ma la produzione non funzionava. Eravamo tra le strutture industriali più grandi d’Italia, ma il costo del lavoro era diventato insostenibile e così si è cominciato a chiudere: per mio padre e gli zii era la morte tutte le volte. Così me ne occupo io”. Gli occhi stavolta rimpiccioliscono, senza un battito di palpebra, e le labbra strette: “Allora faccio aprire all’estero: Marocco, Egitto, Malta. E qui faccio chiudere, chiudere, chiudere. Era come la guerra civile, tutti mi guardavano come il male assoluto”. Gli occhi si fanno ancora più piccoli: “Ma se tenevo aperto saremmo morti, non c’era alternativa. Il primo stabilimento della nostra storia fu l’ultimo a chiudere e lo chiusi io, ai miei non reggeva il cuore”. Così nel 2001 lo chiamano e dicono: ora tocca a te. “Io cado dalle nuvole, ma loro insistono: ti sei portato bene e hai sangue freddo. E a 30 anni puoi fare errori che la gente ti perdona. Non ti abbandoniamo, ma devi diventare il riferimento”.
E come ci sei riuscito? “Prima di tutto non facendo casini, che non è poco. E poi delegando e verificando. L’autorità non s’impone a forza, ma con idee e soluzioni. Ecco, su questo non delego: parlo con tutti, chi ha un problema sa che deve entrare qui”. Fai il prete, insomma: “Un po’ ci vuole. Poi tratto con i clienti e soprattutto spingo sulle nuove idee”. Si arriva all’oggi: design e logistica a Verona con 200 addetti, 2 fabbriche in Tagikistan con 3.000 fatte con la IFC (agenzia della Banca Internazionale Ricostruzione e Sviluppo) “che sorveglia le condizioni del lavoro e della filiera: salario legato al dollaro quindi non si svaluta, spazio e luce adeguata, mensa, depuratori, tutto”. Vuoi diventare missionario come tuo zio? “No, fare le fabbriche senza scorciatoie significa che, se la gente sta bene, lavora bene: e quindi fa qualità. E non solo la fabbrica, tutta la filiera è nostra”. Dal campo seminato al capo inscatolato? “Sì. E io posso garantire con la mia faccia”. Non abbiamo mai parlato della crisi del 2009: “Ci ha colpito come tutti, ma l’abbiamo gestita perché già strutturati, altrimenti saremmo morti. E’ stata la conferma non devi usare il cronometro, ma la bussola”. Che sembra anche il segreto per restare sempre in gara: adelante, con juicio.