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E' un problema di infrastrutture. Sette verità sull'"emergenza idrica"

Erasmo D'Angelis*

Perché il paese che ha inventato acquedotti e fognature è oggi in coda all'Europa nella depurazione e ha problemi con gli acquedotti?

Sono Pazzi Questi Romani. Ecco l'epigrafe cult di questa lunga emergenza più che idrica di infrastrutture idriche. La scolpirebbero aquarii, architecti, libratores, plumbarii, ma anche la manodopera dei legionari e quella più bassa degli schiavi. E aggiungerebbero le loro firme i Leonardo e gli Ximenes e i progettisti e i lavoratori che dal Cinquecento al Novecento costruirono acquedotti ancora come opere immortali di utilitas publica, che evocavano forza e onore per l'Imperium e garantivano igiene e decoro alla vita urbana.

  

I più antichi inventori di mirabili acquedotti (e fogne tuttora funzionanti) mai avrebbero immaginato Roma Regina aquarum e Caput Mundi fare il giro dei media del pianeta come un’assetata metropoli africana, né un servizio idrico nazionale, dal 1994 integrato con la depurazione, in condizioni da paese in via di sviluppo per un buon terzo della penisola. L’impreparazione a gestire una lunga siccità, uno dei fenomeni naturali che con alluvioni e frane da qualche decennio seguono la tempistica accelerata dai cambiamenti climatici, è figlia di molti padri e della regola aurea della società liquefatta, emotiva e dell'istante: “grandi emozioni poi grandi rimozioni”. Perché è sempre finito tutto alle prime piogge, zero carbonella per opere idriche tenute ferme al palo come il raddoppio del Peschiera.

  

Forse non tutti sanno che l’abbondanza dell’acqua di Roma è e resterà leggendaria per altri millenni ancora. E' rinomata dai tempi dei cesari, quando le portate superavano nella stagione più favorevole i 500.000 metri cubi al giorno, con la strabiliante dotazione di poco meno di 6 metri cubi al secondo, più o meno la metà della portata attuale del Peschiera, ma allora dovevano dissetare al massimo un milione di antichi romani e non i quattro milioni di oggi. Il flusso eterno garantiva ad ogni cittadino dell'Urbe circa 500 litri al giorno, più o meno il consumo medio pro capite attuale comprese perdite, furti e sprechi. Da sempre è eccezionalmente buona, e scorre a “caduta” (con notevolissimo risparmio rispetto a chi deve tirarla su da fiumi e pozzi con impianti di sollevamento, trattamento e spinta) dall’alto dei serbatoi naturali nel cuore delle montagne della Sabina.

  

Il primo acquedotto romano risale alla notte dei tempi del 312 avanti Cristo, aveva 68 chilometri di condotte con pendenze calcolate al millimetro da quei geni, e 15 in elevazione su grandi arcate spettacolari. Lo fece costruire il dittatore Appio Claudio, detto Cieco perché davvero era non vedente dopo una vita di guerre contro etruschi, latini, sabini e sanniti. Ma ci vedeva talmente chiaro che per quelle popolazioni di pastori immaginava la grande Roma imperiale, con la sua fondamentale opera che partiva da una presa sulla sorgente presso l’Aniene per poi diventare un incredibile e complesso sistema di 12 acquedotti unici per monumentalità, capillarità e funzionalità: Aqua Appia, Anio Vetus, Aqua Marcia, Aqua Tepula, Aqua Iulia, Aqua Virgo, Aqua Alsietina, Aqua Claudia, Anio Novus, Aqua Traiana, Aqua Alexandriana. Per dire, ai tempi di Alessandro Severo, più meno nel 235 dopo Cristo, l’intera rete di condutture sopraelevate e sotterranee di Roma misurava oltre 500 chilometri, 47 in superficie, e l'acqua sgorgava da 1352 fontane pubbliche, zampillava da 15 fontane monumentali, riempiva 900 piscine, riforniva 11 terme pubbliche, colmava 2 bacini per spettacoli come le "naumachie" con combattimenti navali in piena città, e 3 laghi artificiali. E una volta usata, tornava a scorrere in quello che ancora oggi è il più resistente sistema di drenaggio del mondo, la Cloaca o Fogna Massima scavata nell’epoca etrusca, che scarica nel Tevere.

 

Dionigi di Alicarnasso non a caso lasciò scritto: «Mi sembra che la grandezza dell’impero romano si riveli mirabilmente in tre cose, gli acquedotti, le strade, le fognature». Il geografo greco Strabone scolpì: «La quantità d’acqua che viene condotta nella città è talmente grande che attraverso la città e nei canali sotterranei scorrono veri e propri fiumi e quasi ogni casa ha condutture e serbatoi propri e possiede fontane che zampillano in abbondanza». E il mitico naturalista Plinio il Vecchio annotò: «Chi vorrà considerare con attenzione la quantità delle acque di uso pubblico per le terme, le piscine, le fontane, le case, i giardini suburbani, le ville; la distanza da cui l’acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto il mondo è mai esistito di più meraviglioso». Per gli antichi avi era impossibile far mancare acqua alla capitale. Il Senato ha sempre dato ordini perentori ai curator aquarum: gestire e fare manutenzioni degli acquedotti esistenti, ricercare nuove fonti, costruirne nuovi impianti. La strategia dell'acqua nel 33 a.C., per dire, era nelle mani di un certo Menenio Agrippa, personaggio mitico della storia romana, su incarico di Augusto e con la consulenza del teorico dell’architettura Marco Vitruvio Pollione. Fecero costruire, i due, in un solo anno, l’intero acquedotto Virgo che da solo garantiva, parola di Plinio, «settecento bacini, oltre a cinquecento fontane e a centotrenta serbatoi...e su questi impianti eresse trecento statue di bronzo e di marmo e quattrocento colonne marmoree». Un solo anno! Beh, Roma avrebbe bisogno anche di un po’ dell’orgoglio civico di Sesto Giulio Frontino, generale dell'esercito e poi il più grande idraulico dell'antichità, che scriveva cose del genere: «Nessuno comprenderà le inutili piramidi né gli inutili pensieri e le opere famose dei greci, in confronto a questi acquedotti».

  

L’acquedotto non era solo infrastruttura di trasporto di risorsa, ma simbolo di potenza, e l'Impero ne realizzò 149 in Italia e altrettanti nei territori conquistati come segno dell'azione civilizzatrice. E i costruttori acquisivano gratitudine eterna, scolpita nelle epigrafi funerarie. E non è mai stata gratis. L'acqua a Roma era garantita da un regolare contratto tra i curator aquarum e i gestori di servizi (dai teatri ai bagni), mentre i proprietari di case pagavano una tariffa a importo fisso calcolata in base al diametro della condotta di allacciamento dalle cui dimensioni si risaliva alla quantità erogata. Con ferrei controlli su furti d'acqua e allacciamenti abusivi e pene esemplari.

  

Questo perenne ben di dio fu interrotto solo quando gli ostrogoti di Vitige giunsero alle porte della città per l’assedio del 537. Pare che il generale Belisario, difensore di Roma, fece distruggere i condotti per evitare che i barbari li usassero come via di accesso. O forse sono stati proprio i barbari a farli franare, per assetare la città e costringerla alla resa. Fatto sta che qualche canalizzazione fu riattivata solo quattrocento anni dopo, quando la storia degli acquedotti romani ripartì creando l’immensa rete di rifornimento, e fontane strabilianti ovunque, che non teme confronti per qualità e quantità (perché ogni famiglia romana paghi in media una bolletta occulta da 250 euro l'anno circa, il doppio della più modesta bolletta idrica d’Europa, per acquisti di minerali imbottigliate è un altro mistero).

   


Oggi Roma conta 208 chilometri di rete di acquedotti, 1.500 km di reti di adduzione, oltre 8.100 di reti di distribuzione ai rubinetti, e 2.400 “nasoni” senza pulsantiera che scaricano acqua potabile h24. L’acqua arriva ai rubinetti per l’85 per cento da perenni sorgenti come il Peschiera, Capore, Acqua Marcia, Acquoria, Salone-Vergine, Simbrivio; per il 12 per cento da pozzi Appio-Alessandrino, Laurentino e altri minori; per il 3 per cento dal lago di Bracciano tenuto di scorta per le emergenze. Ma è soprattutto l’acquedotto del Peschiera che dalle profondità di Cittaducale nel reatino garantisce a Roma il 70 per cento d’acqua a 12,5 metri cubi al secondo.

  

Duemilatrecento anni dopo la prima posa di una condotta sul suolo italico, tutti sappiamo a memoria il miracolo dei due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, H2O, l'unica formula chimica che conosciamo dalle elementari. Solo quella. Per il resto, generalmente, ignoriamo i fondamentali. Intorno al tema dell’acqua piace da morire filosofeggiare. Dai tempi di Talete (l'Arché, principio ordinatore del mondo) e Eraclito (simbolo del perenne fluire delle cose, principio e fine) fino alla demagogia del bene comune dei nostri giorni, è da sempre circondata da miti, riti e leggende che solo da noi sono diventate metropolitane. Ma hanno fatto il loro tempo, e molti danni negli ultimi vent'anni, almeno due tipologie di approccio che prima abbandoniamo e meglio è. La prima ha visto cavalcare il tema dell'acqua solo come metafora, mitologia, filosofia, simbolo – per carità, cose importanti – ma glissando sulla concretezza del bene comune e delle condizioni infrastrutturali, e scaricando i problemi al futuro. L’acqua richiama il tema delle opere che le sono funzionali. La natura ce l'ha donata, dimenticando tubi e impianti.

  

La seconda tipologia è lo schema delle curve sud, ognuna delle quali sventola la sua bandierina ideologica (privatizzazione, ripubblicizzazione, acqua pubblica, bene comune…) che finora ci ha condotto verso una unica destinazione: il mantenimento dello status quo, a chiudere gli occhi su ritardi inaccettabili, ad immaginare nemici là dove non ci sono. L'acqua bene comune universale solo da noi è stata universalmente rimossa nella sua concretezza di reti, acquedotti e depuratori. E’ stato il grande danno, non tanto e non solo dei comitati referendari – non a caso isolati come virus dai loro sponsor un secondo dopo la loro stravittoria referendaria del 2011 – ma di tanta classe politica e dirigente e formatori di opinioni pubbliche che per vari motivi ha fatto surf sull’onda degli equivoci di quella case history mondiale. Sapevano che l'acqua pubblica era già pubblica e tale resterà, che l'intero ciclo idrico era ed è saldamente in mano pubblica con la proprietà comunali di reti e impianti e i sindaci "padroni" dell'acqua, con l'unica eccezione della Regione Puglia con il suo Acquedotto pugliese risanato da Vendola che non a caso mal sopportava il comitatismo referendario. Sono i sindaci che cambiano i board delle multiutility quotate, ricevono utili per i bilanci comunali, decidono tariffe negli Enti di Governo di Ambito sulla base della metodologia definita dall'Autorità per il servizio idrico di Guido Bortoni, indicano strategie di investimenti e hanno lasciato triturare le loro più grandi aziende pubbliche come piratesche e profittatrici. 

    

Perché il paese che ha inventato acquedotti e fognature è oggi in coda all'Europa nella depurazione e ha problemi con gli acquedotti? Mettiamoli in fila i problemi, con le loro cause e le soluzioni possibili.

  

Prima operazione verità. Come sta la nostra rete idrica? Da record con le perdite più alte della media in area Ue: ufficialmente il 38,2 per cento dei 385 litri per abitante immessi giornalmente nelle reti comunali di distribuzione per un consumo pro capite giornaliero più elevato d'Europa da 245 litri a testa. Vanno detratte le perdite commerciali (contatori invecchiati, prelievi abusivi e bollette non riscosse) intorno al 10 per cento. Ma gli sprechi energetici sono di circa 600 milioni di euro l'anno per spingere in rete l'acqua persa. Da nord a sud, le perdite totali vanno dal 26 per cento del nord al 44 per cento di Roma al 100 per cento in aree del sud dove si immettono 2 litri per averne 1. Le perdite sono in aumento costante dall'1 al 3 per cento l'anno (dipende dagli ambiti) per l'effetto di scarsi investimenti sulla manutenzione. Sui circa 485 mila km di tubazioni italiane (quasi 500 mila con gli allacciamenti strada-abitazioni), almeno 170 mila km sono tubi molto vecchi e sono da rottamare, riparare, rigenerare (calcola Atesys di Alessandro Marangoni). Impresa possibile con tecnologie moderne, ma costosa. In più, servirebbero posare 51.000 km di nuove reti (30.000 per l’acqua e 21.000 per le fognature). Il 60 per cento della rete è stata infatti posata oltre 30 anni fa, una quota del 25 per cento ha superato il limite di resistenza strutturale dei 70 anni, e sotto i centri storici resistono a fatica condotte risalenti anche ai tempi dell'Unità d'Italia: tubi di ghisa grigia non flessibili, che si lesionano facilmente con sbalzi di temperatura o carichi di traffico. Il tasso nazionale di rinnovo è ridicolo: 3,8 metri di condotte per ogni km di rete, calcola Utilitalia, ma è quasi tutto al centro-nord. Su scala nazionale, con questo ritmo, occorrerebbero 250 anni per raggiungere livelli di perdite modello europeo accettabili (sotto il 10 per cento).

  

Seconda operazione verità. Quanto costa a noi utenti il servizio idrico integrale? Siamo sempre lì, al fondo classifica tra i paesi europei con il prezzo più basso. La tariffa media nello spezzatino tariffario italiano è di circa 160 euro l'anno, prendendo come esempio una famiglia che consuma circa 110 metri cubi di acqua ogni 365 giorni in media (dato certificato). E' tre volte più bassa della media Ue, un terzo di quella francese, un quarto di quella tedesca, un quinto dei Paesi del Nord, persino più bassa della Grecia. Circolano tariffe virtuali taroccate, elaborate a tavolino su consumi virtuali (200 mc e più l'anno) ma solo falsi clamorosi. L'ultimo faceva immaginare addirittura 500 euro l'anno di bolletta per i romani. Bum. Le tariffe di ambito validate dall'Autorità nazionale partono dalla vetta Toscana, ormai quasi ai livelli europei, di 3 euro a metro cubo (circa 350 euro l’anno), in parte del centro nord sono intorno ai 2 euro, crollano tra Milano e Roma a poco più di 1 euro (130-150 euro l’anno) e spariscono in zone tra Calabria e Sicilia dove l’acqua non si paga e infatti non scorre o scorre a gocce e magari è anche inquinata.

  

Terza operazione verità. Con le tariffe attuali e la tendenza consolidata al non aumento, inutile promettere illusioni. L'impresa di tappare falle di questa portata è impossibile di fronte ad un fabbisogno di investimenti costanti stimato da Utilitalia in un gettito di almeno 5 miliardi all'anno, oltre il doppio di oggi. Tradotto significa portare gli attuali 35 euro per abitante/anno a 80 euro. In Danimarca investono 129 euro, nel Regno Unito 102, in Francia e Germania 88. I nostri 34 euro garantiscono 1,6 miliardi di lavori idrici (con appena lo 0,3 da fondi pubblici). Per l'80 per cento sono investiti al centro-nord, da aziende che operano con logiche industriali, con punte minime al Sud (18 euro), e una media di nemmeno 10 euro l'anno procapite nelle circa 2.000 gestioni comunali in house che tutelano ormai in larga parte condizioni di arretratezza. Basti ricordare, due anni fa, lo scorno dei 20 giorni senz'acqua di Messina per l'ennesima rottura di un tubo della vecchia rete colabrodo. L'unico caso di crisi prolungata in una grande città nel mondo avanzato, risolto da Acea chiamata dalla Protezione Civile.

  

Quarta operazione verità. Quanto ci costa questo arretrato? Non solo disagi, ma forti sanzioni per questo sfascio. Dal 2016 sono scattate le prime multe per mancata depurazione o allacciamento a reti fognarie, dopo le prime tre sentenze di condanna della Corte di Giustizia Europea (19 luglio 2012, del 10 aprile 2014 e del 28 marzo 2014) e supereranno i 500 milioni l'anno da pagare fino ad opere realizzate nei 931 agglomerati urbani (circa 2500 Comuni) con licenza di inquinamento di fiumi, laghi, mare, campagne. Oggi un terzo degli italiani, infatti, è ancora senza depuratori o fognature, nonostante le scadenze nelle direttive europee, al più tardi entro il 31.12.2005. Ma la mancata depurazione al Sud non è nemmeno un problema di risorse che mancano, quanto di aziende e governance che non esistono. Dal 2007 al 2013, con tre Delibere Cipe e Fondi europei, lo Stato ha finanziato cash e a fondo perduto depuratori e reti per complessivi 4,3 miliardi di euro (al centronord sono servizi regolati a tariffa che pagano solo i cittadini). Un tesoretto esclusivo per 1.296 progetti. Il nostro monitoraggio di Italiasicura nel 2014, appena nato il governo Renzi, ha verificato appena 76 opere completate per 47 milioni di euro, 768 in corso per 1,5 miliardi, 452 per 2,7 miliardi bloccate o non progettate. Oggi sono spinte dal nuovo Commissario nazionale per la depurazione messo in pista dal Governo Gentiloni nel marzo scorso. E per far applicare, dopo 21 anni, la legge Galli a cinque Regioni (Sicilia, Calabria, Campania, Lazio e Molise) non sono servite nemmeno, nel 2015, le norme nello Sblocca Italia e il pressing del ministro Galletti.

   

Quinta operazione verità. Quanta acqua abbiamo? Sappiamo che l’acqua si può “catturare” e conservare in invasi. L'acqua potabile si può “produrre” con la dissalazione. Si può riusare acqua piovana o di depurazione per raffreddare impianti industriali evitando la migliore acqua di falda. Si può risparmiare estendendo tecniche di irrigazione di ultima generazione. Che l'acqua è un ciclo permanente, rinnovabile con le piogge. E in termini di precipitazioni siamo la grande sorpresa europea, con una decisa abbondanza di pioggia per 302 miliardi di metri cubi l'anno di acqua, in media negli ultimi 15 anni. Fanno circa 2.800 metri cubi/abitante, (dati Istat-Ispra alla recente Conferenza nazionale sulle acque di Italiasicura), dotazione superiore a Gran Bretagna o Germania. Nel periodo 2001-2015 si è registrato persino un aumento di piovosità media rispetto ai 30 anni precedenti 1971-2000 anche se la modalità è cambiata, con piogge "esplosive" concentrate nel tempo e in aree ristrette e danni enormi. Oggi preleviamo appena 43 mld di metri cubi l'anno, l’11,3 per cento del totale (nel 1971 era il 13,2) con utilizzi per il 46,7 per cento all’irriguo, per il 27,8 per cento a usi civili, per il 17,8 per cento a usi industriali, per il 4,7% all’energetico, per il restante 2,9 per cento alla zootecnia. Abbiamo anche in custodia il più importante patrimonio europeo di corsi d'acqua: 1.242 (11 grandi fiumi oltre i 200 km, 58 oltre i 100, 14 laghi oltre i 10 km quadrati, 183 laghi artificiali, 4000 piccoli specchi d’acqua alpini, 1.053 corpi idrici sotterranei). L'Italia potrebbe essere tranquillamente definita una "penisola blu" ma visto che l'acqua è dipendente dalle infrastrutture, una bella quota di problemi è dovuta a opere non realizzate e alla storica carenza o assenza di invasi per gestire lunghi periodi siccitosi come questo. Ne servirebbero almeno 2.000 per un investimento a lunga scadenza di circa 20 miliardi, come prevede il piano Consorzi di bonifica di Italiasicura, all'attenzione dei ministeri dell'Agricoltura, dell'Economia e Infrastrutture. Bacini di accumulo con più funzioni: idropotabile, irriguo, per contenere piene. Non bastano le nostre 381 dighe oltre i 15 metri altezza e volumi invasati di oltre 1 milione di metri cubi. Altre 30 sono ormai fuori esercizio, 28 sono a invaso limitato, 84 sono in collaudo e 11 in costruzione grazie alla ripresa di investimenti del ministero di Delrio. Soprattutto al Sud, troviamo dighe incomplete da decenni o senza le infrastrutture per utilizzarla. Col rischio clima i problemi tenderanno a diventare molto più acuti in mancanza di interventi di adattamento e difesa, e pensiamo all’effetto cuneo salino che colpisce gli acquiferi costieri con la penetrazione di acqua marina nelle falde o alla desertificazione che colpisce 16.500 km di terre al Sud e sulle isole. Non c'è più tempo da perdere e vanno riscoperti i concetti di pianificazione, programmazione, prevenzione strutturale. Scelte rapide.

  

Sesta operazione verità. La legge Galli benemerita ha fatto il suo tempo. Entra in ballo l'urgenza di una sua radicale revisione dopo 24 anni di luci (al centro-nord) e molte ombre (verso sud). Quel modello ha subito troppi boicottaggi e una troppo lunga fase di non applicazione che dura ancora oggi. La leva tariffaria è rimasta un tabù della politica locale e chi tocca quei fili muore. Non regge più lo spezzatino tariffario con la divisione della penisola in 92 Ambiti territoriali ottimali, ognuno lasciato con i suoi guai e con la sua tariffa dallo Stato. In ognuno di essi, i Comuni associati dovevano affidare il servizio a gara ad un gestore di ambito. Risultato, un terzo degli ambiti non sono mai pervenuti, non sono stati nemmeno costituiti, non sono mai entrati in funzione, sono stati bloccati dalla mancata adesione dei Comuni. I controlli per due decenni sono stati una farsa, e l’abbandono degli investimenti nella fiscalità generale con l'alibi tariffario ha fatto il resto. Se la Galli ha prodotto la crescita dei volumi degli investimenti nel centro-nord, 24 anni dopo lascia 10 milioni di italiani con problemi di acquedotti e circa 20 milioni, in parte anche tra Lombardia e Friuli, di fogne o depuratori. Questa emergenza chiama il Parlamento quantomeno ad un "tagliando" della legge in questo scorcio di legislatura, e alla nuova riforma.

  

Settima operazione verità. La ripresa degli investimenti è possibile ma serve sull'intero territorio nazionale. E' realizzabile solo con una tariffa unica nazionale, una bolletta che superi gli ambiti sul modello dell'energia elettrica, regolata e definita dall'Autorità. Va introdotto un percorso di razionalizzazione delle tariffe con una equa distribuzione territoriale dei costi del servizio secondo principi solidaristici che permetta di superare criticità e disomogeneità. L'Autorità stabilisce nell’ambito del metodo tariffario le componenti di costo riconoscibili, vincoli e ricavi e meccanismi perequativi del gestore, predispone e approva l’articolazione tariffaria che tutti i gestori sono tenuti ad applicare a livello nazionale. Un sistema tariffario adeguato e trasparente, con agevolazioni per fasce di italiani in difficoltà. E' realistico portarla intorno ai 200 euro l'anno per tutti gli utenti, per "pagare poco ma pagare tutti" e resterebbe ancora la più bassa del continente, ed è possibile reggere gli investimenti scorporando la depurazione e facendola ritornare in capo alla fiscalità generale come obbligo sia per l'effetto sanzioni sia per il risanamento dei disastri e la tutela dei beni pubblici come l'igiene, i fiumi, il mare. Con fondi pubblici dedicati per 1.5-2 miliardi l'anno, il gettito complessivo salirebbe ai 5 miliardi che servono. E anche oltre, se le aziende riuscissero ad utilizzare le potenzialità del Piano Junker, della Cassa Depositi e Prestiti, dei Fondi Bei, delle emissioni di obbligazioni di durata medio-lunga. Tutto ciò avrebbe un effetto positivo anche sui livelli occupazionali stimati in una fascia fra 160.000 e 220.000 unità. Resta il tema delle gestioni idriche al Sud, da rendere gestioni industriali, e poco importa in un settore ormai regolato se a carattere pubblico o in concessione o in forma di spa miste. Ma soprattutto con aggregazioni intorno a un player industriale.
Avendo perso – per diversi motivi – la spinta della Galli, ne va ritrovata un'altra se vogliamo chiudere il cerchio dalla potabilizzazione alla depurazione.

   

* Responsabile della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche di ItaliaSicura

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