Più Reddito di Inclusione e meno pensioni per un welfare più equo
Quali sono i pregi e i difetti del "ReI" e perché è giusto che ai giovani bisognosi pensi la manovra
Roma. Il governo ha approvato il decreto attuativo della legge delega per contrasto alla povertà. Il Reddito di inclusione (ReI) è legge e così a partire dal 1 gennaio 2018 circa 500 mila famiglie in estrema difficoltà, circa 1,8 milioni di poveri di cui 500 mila minori (la metà di quelli che vivono in povertà), potranno ottenere un assegno mensile che va da circa 190 euro a circa 490 euro al mese, in base al numero di componenti della famiglia. Costo complessivo: 2 miliardi.
Secondo la descrizione del governo il ReI è la prima misura unica nazionale di contrasto alla povertà a vocazione universale, riservato a una platea molto ampia anche se non esaustiva delle persone in povertà assoluta. In realtà non si tratta affatto di uno strumento universalistico, ma molto selettivo e non è detto che questo sia un difetto. Un limite, se così si può dire, è sicuramente il sotto-finanziamento, nel senso che le risorse stanziate non sono sufficienti a coprire la platea di famiglie e persone bisognose di aiuto: l’Istat calcola che il numero dei poveri, che si è quasi triplicato per effetto della crisi economica, è di 4,6 milioni di persone (1,6 milioni di famiglie, all’interno delle quali ci sono oltre 1 milione di minori). Ma le risorse sono limitate per definizione, e per necessità in un paese con i conti ancora fragili come il nostro.
Anche per questo motivo, per fare di necessità virtù, giustamente il ReI anziché essere uno strumento universalistico che avrebbe diffuso a pioggia pochi spiccioli è una misura molto selettiva, in modo da poter raggiungere i nuclei familiari più bisognosi e con maggiori fragilità. Il target infatti è quello delle famiglie con minori, con figli disabili, con donne in gravidanza e con componenti disoccupati che abbiano compiuto 55 anni. Per evitare sovrapposizioni con altre forme di sostegno al reddito, sono escluse le famiglie in cui ci sono componenti che percepiscono la Naspi o altri sussidi di disoccupazione. Dal punto di vista dei requisiti economici, le soglie di accesso al ReI sono sia di tipo reddituale che patrimoniale. Le famiglie beneficiarie devono avere un Isee non superiore a 6 mila euro, un reddito non superiore a 3 mila euro, un patrimonio immobiliare (eccetto la prima casa) inferiore a 20 mila euro, un patrimonio mobiliare inferiore a 10 mila euro.
I requisiti, come si vede, sono molto stringenti ed è solo in questo modo che le già scarse risorse possono essere indirizzate alle fasce più in difficoltà. Ci sono dei piccoli difetti, come ad esempio l’eccessivo paternalismo che consente ai beneficiari di spendere in contante solo la metà del ReI e il resto con una carta prepagata (un limite che per somme così piccole è eccessivo), ma l’interrogativo più grande – che poi farà la differenza tra il successo e il flop della misura – riguarda la seconda componente del ReI, l’attivazione sociale e lavorativa: i comuni dovranno avviare progetti personalizzati di inclusione e attivazione per favorire l'uscita dalla povertà. L’Italia non ha una storia di successo su questo campo.
Il pregio di questo provvedimento è che, seppure in ritardo e con risorse insufficienti, si rivolge alle famiglie che maggiormente hanno subìto i colpi della crisi. E guardare i dati Istat per classi di età suggerisce anche su quali fasce bisogna concentrare gli sforzi: dal 2007 l’incidenza della povertà assoluta è più che quintuplicata per i giovani tra i 18 e i 34 anni, quasi triplicata nelle fasce 35-44 anni e 45-54, più che raddoppiata tra 55 e 64 anni. Unico dato in controtendenza sono gli over 65, tra cui la povertà assoluta si è ridotta dal 4,8 al 3,9 per cento.
A questo punto è evidente su quali fasce sociali e classi d’età bisogna concentrare le risorse: giovani e disoccupati. Di questi dovrebbe occuparsi la prossima legge di Stabilità. Nella giusta direzione va l’idea di una decontribuzione per i giovani, mentre in quella opposta e sbagliata tutte le proposte che parlano di pensioni: riscatto gratuito della laurea ai fini previdenziali, pensione minima garantita, aumento delle pensioni minime, blocco dell’adeguamento dell’età pensionabile. Sono tutte misure costose e poco selettive, che vanno in maniera indistinta anche a persone che non vivono in condizioni di bisogno. Come si può pensare alla pensione futura dei giovani se non si provvede al lavoro attuale che manca? Si può spendere 1,2 miliardi per bloccare l’aumento dell’età pensionabile, quando se ne mettono solo 2 per 4,6 milioni di poveri assoluti? A questo dovrebbe pensare il governo nella stesura della legge di Bilancio.