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Check-up d’Italia con il presidente Alleva. Tra diatribe statistiche, stime caute e pil che va (più 1,5 nel 2017)
Roma. Quando, come in questo frangente, migliorano i dati sulla crescita e sull’occupazione è difficile che pubblico e media riconoscano il successo. E sotto scrutinio finisce chi fabbrica i dati. Sono infatti cicliche le polemiche sulle statistiche macroeconomiche. Chiediamo a Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, se lo spiazzamento non sia giustificabile: in fondo è bizzarro notare che nel mercato del lavoro c’è una tendenza regolare alla crescita dell’occupazione mentre il tasso di disoccupazione resta testardamente alto (11,3 per cento). Come stanno le cose? “A luglio il numero di occupati ha superato il livello di 23 milioni di unità, avvicinandosi al massimo raggiunto nel 2008, con segnali di crescita per tutte le tipologie (dipendenti permanenti, a termine, indipendenti). Rispetto ai livelli pre-crisi, il tasso di occupazione è ancora inferiore di 1 punto percentuale, con importanti differenze a sfavore dei giovani: rispetto alla situazione precedente alla lunga crisi il tasso risulta inferiore di 9 punti per i 25-34enni e superiore di ben 12 punti per i 50-64enni. L’aspetto generazionale della crescita dell’occupazione sembra persistere nonostante i progressi degli ultimi anni. Un altro punto critico sono i tassi di disoccupazione ancora elevati (11,3 rispetto all’11,5 per cento di un anno prima) rispetto all’area Uem (dal 10,0 al 9,1). L’analisi della dinamica delle persone in cerca di occupazione – dice Alleva – consente di chiarire alcuni aspetti significativi: emerge una tendenza alla crescita delle persone in cerca di occupazione precedentemente inattive e, in misura inferiore, di quelle senza esperienze di lavoro. In particolare, si affacciano sul mercato del lavoro persone precedentemente inattive con oltre 35 anni di età, diminuiscono i disoccupati con meno di 35 anni. Queste dinamiche indicano un cambiamento della composizione della disoccupazione, spinta dalla progressiva e strutturale diminuzione degli inattivi in atto dalla metà del 2013”.
La politica parla di giovani solo nella prospettiva di quando saranno anziani. A chi è andata peggio durante la crisi: ai giovani o agli anziani? “I dati sull’incidenza della povertà assoluta per classe di età mostrano, in un contesto di aumento complessivo dal 3,6 per cento del 2008 al 7,9 del 2016, una crescita dal 3,7 per cento al 12,5 per le persone fino a 17 anni e dal 3,9 al 10 per cento per quelle con 18-34 anni. Nello stesso periodo l’incidenza della povertà assoluta si è ridotta dal 4,4 al 3,8 per cento per gli individui con 65 anni ed oltre. Si tratta di dinamiche significative e che sembrano evidenziare connotazioni strutturali, confermate anche dalle nostre analisi sulla redistribuzione del reddito attuata attraverso l’intervento pubblico: dopo i trasferimenti e il prelievo il rischio di povertà aumenta dal 19,7 al 25,3 per cento per i giovani nella fascia dai 15 ai 24 anni di età e dal 17,9 al 20,2 per cento per quelli dai 25 ai 34 anni . La crisi è stata soprattutto pagata dalle famiglie con almeno uno straniero, mediamente con persona di riferimento più giovane, e dalle famiglie tradizionali della provincia italiana, con più figli, spesso un unico percettore di reddito lavoratore autonomo”.
Torniamo a un’altra fonte di polemiche. Quando Istat rivede al rialzo le stime sul pil rispetto a quelle preliminari sono comuni critiche aspre all’Istituto, descritto come una appendice della politica. Quali sono i fattori determinanti, in concreto? “Le revisioni significative hanno riguardato le stime relative al 4° trimestre del 2016 e, di nuovo, quelle riguardanti il 1° trimestre del 2017. Per il secondo trimestre – ovvero quello più recente – le nuove stime pubblicate confermano il medesimo tasso di crescita (più 0,4 per cento) della stima preliminare pubblicata a metà agosto. Per quei due trimestri vi è stata una revisione al rialzo di 2 decimi di punto, una dimensione statisticamente limitata. Le stime anticipate del pil sono basate su un’informazione parziale. Nel caso specifico, in entrambi i trimestri l’iniziale sottostima ha riguardato comparti dei servizi, per i quali l’informazione si rende disponibile solo successivamente alla elaborazione della prima stima preliminare. L’unico modo per contenere questo problema è quello di produrre indicatori congiunturali più tempestivi per le attività dei servizi. L’Istituto sta lavorando in questa direzione anche attraverso la collaborazione delle imprese”.
Dunque, al contrario, c’è una tendenza conservativa? Attualmente altri osservatori sovranazionali, come il Fmi, o privati, come l’agenzia Moody’s, prevedono una crescita dell’1,3 per cento a fine 2018. Istat dà per acquisita una crescita dell’1,2 per cento, un decimale in meno. “Il tasso di crescita acquisito – precisa Alleva – è un banale strumento tecnico che ci dice semplicemente quanto varierebbe il pil se di qui a fine anno registrasse variazioni nulle. Che la crescita acquisita sia ad oggi dell’1,2 per cento è un dato di fatto e non costituisce una previsione sul 2017. Qualora la crescita nella seconda parte dell’anno fosse la stessa registrata nel primo semestre (più 0,4 in entrambi i trimestre) nel 2017 avremmo un più 1,5 per cento – aggiunge – Nelle stime preliminari non c’è alcuna scelta a priori di essere cauti, più o meno conservativi, a guidare sono esclusivamente i dati e le metodologie scelte per il loro trattamento, e dunque le competenze, l’esperienza e la condivisione delle pratiche a livello internazionale. Dalle statistiche sulle revisioni emergono sia errori di sottostima sia di sovrastima, in una fase di ripresa, di passaggio a un ciclo espansivo come quella che stiamo attraversando, tipicamente sono più probabili casi di sottostima”.
La ripresa congiunturale attuale è una fiammata o è qui per restare? “Possiamo affermare che la ripresa congiunturale dell’economia italiana, che configura una fase ciclica positiva, c’è, lo conferma la sequenza di 10 variazioni trimestrali di segno positivo, ma mantiene un’intensità significativamente inferiore sia a quella prevalente in Europa, sia a quella necessaria per recuperare in tempi brevi i livelli che il paese aveva toccato ormai 10 anni fa. La crisi si è manifestata in un contesto di ritardi strutturali sul piano della ricerca, del capitale umano, della modernizzazione delle infrastrutture e dell’amministrazione pubblica, con forti divari territoriali e disuguaglianze. Proseguendo con interventi anche in queste direzioni potremo colmare i gap con gli altri partner e registrare tassi di espansione soddisfacenti per la nostra economia. Nonostante questi aspetti abbiamo documentato la profonda ristrutturazione dell’apparato produttivo avvenuta nel corso della crisi e in fase espansiva. Il sistema industriale italiano è più solido dal punto di vista economico-finanziario e più internazionalizzato rispetto alla fase pre-crisi. Inoltre le politiche hanno favorito un recupero di competitività di prezzo e stimolato la modernizzazione dell’apparato produttivo”.
Il manifatturiero cresce ma conta per una porzione ridotta rispetto ai servizi ai fini del pil. I servizi danno segnali di recupero ma soffrono un gap. “Le recenti dinamiche del settore dei servizi di mercato confermano che siamo in presenza di una prolungata fase espansiva. Criticità congiunturali si rilevano ancora nel comparto dei servizi di informazione e comunicazione ed in quello delle attività professionali, settori legati alla domanda delle imprese e del settore pubblico. Sul piano strutturale le analisi che abbiamo realizzate sottolineano almeno due aspetti: da un lato una minore capacità di riposizionamento competitivo delle imprese dei servizi rispetto a quelle industriali; dall’altro un’attivazione di domanda di servizi da parte delle imprese industriali strutturalmente più bassa rispetto, ad esempio, a quella stimata per la Germania”. Presidente Alleva, può circoscrivere l’effetto sui consumi del “bonus 80 euro” per i lavoratori dipendenti? “Il bonus di 80 euro ha determinato una riduzione della disuguaglianza dei redditi disponibili, misurata dall’indice di Gini, dal 30,4 al 30,1 e una diminuzione del rischio di povertà dal 19,2 al 18,4 per cento. Non disponiamo invece di una stima specifica di impatto sui consumi”.
A proposito di consumi non pensa ci sia un deficit di informazione quando Istat parla di commercio? Si considera la sede fissa (e fisica) ma l’e-commerce viene bypassato. “La situazione attuale non esclude totalmente il commercio elettronico, nella misura in cui questo non è l’attività prevalente dell’impresa. Ad esempio, se una catena di elettronica vende in negozio e online, le vendite da noi rilevate comprendono entrambi i canali. Diverso è il caso delle imprese che hanno come attività principale il commercio elettronico, al momento escluse dal calcolo degli indici diffusi a livello nazionale. Tuttavia, a partire da febbraio 2018 le serie storiche comprenderanno anche le vendite realizzate da queste imprese”, conclude Alleva.