Irma e gli altri, ecco il mercato delle catastrofi
Dai Catastrophe Bond ai sussidi di stato, così si prova a superare la crisi generata dai disastri naturali
L'uragano Harvey dal 17 agosto al 2 settembre ha devastato le Isole Sopravento, Suriname, Guyana, Nicaragua, Honduras, Belize e Yucatán per colpire poi Texas e Louisiana. A parte le 71 vittime, il costo dei danni potrebbe eccedere l'1 per cento del pil americano, pari a una somma che oscilla tra i 70 miliardi e i 200 miliardi di dollari. È l'uragano atlantico più devastante che abbia mai colpito gli Stati Uniti dal 2005, ma la stagione del 2017 è appena all'inizio. Irma, che si è sviluppato il 30 agosto verso Capo Verde, in attesa di abbattersi sulla Florida ha già fatto 10 morti sull'isola di Saint-Martin, Anguilla e Barbuda, dove il 90 per cento delle case è stato distrutto. Dietro a Irma avanza Jose, che è passato con venti a 120 chilometri all'ora, a 450 chilometri di distanza dalle coste della Guyana francese. E c'è anche Katia a 285 chilometri da Veracruz, in Messico, che ha già costretto le autorità a diramare ordini di evacuazione.
Questi eventi catastrofici hanno scosso duramente i mercati delle materie prime. La chiusura di una decina di raffinerie texane ha spinto su il prezzo della benzina negli Stati Uniti, che ha superato i due dollari al gallone per la prima volta in due anni e che ha spinto il dipartimento dell'Energia a mettere sul mercato 4,5 milioni dei 679 milioni di barili di greggio della riserva strategica custodita in caverne lungo la costa del Golfo del Messico. Ma Harvey e Irma stanno penalizzando anche il mercato del cotone, tra le piantagioni già allagate tra Texas e Delta del Mississippi e quelle minacciate tra Georgia e South Carolina (il prezzo del cotone è già ai massimi da tre mesi). Negli Stati Uniti, i timori di un impatto ancora più devastante da parte di Irma hanno già fatto impennare del 6 per cento le quotazioni dei futures sul succo di arancia per novembre fino a un picco di 146,40 centesimi di dollaro per libbra.
Dall'altra parte del mondo, in Madagascar, è stato lanciato un allarme simile dopo il passaggio del ciclone Enawo, che ha fatto più che triplicare i prezzi della vaniglia, saliti fino ai 600 dollari al chilo. Gravi problemi per i fabbricanti e distributori di gelati, ma paradossale gioia per gli agricoltori malgasci, che secondo quanto hanno riferito i media internazionali, per la prima volta grazie hanno aumentato i loro ricavi.
Insomma, di catastrofi ci si può anche arricchire senza necessariamente essere sciacalli. Malgrado i timori di molti, Harvey ha fatto cadere di appena lo 0,42 per cento il mercato secondario dei Cat Bonds, i “Buoni Catastrofe” che furono creati per aiutare le assicurazioni a pagare i danni per le grandi catastrofi naturali e il cui portafoglio è aumentato in 20 anni da uno a 10 miliardi di dollari. I Catastrophe Bonds sono titoli venduti dalle compagnie di riassicurazione per coprire i disastri naturali. Si tratta in sostanza di un particolare tipo di derivati che, spiegano gli opuscoli, “permettono di diluire rischi anche molto difficili da quantificare su una larga fascia di investitori. In questo modo, ci si può coprire da eventi da cui sarebbe altrimenti molto difficile proteggersi”. Fu dopo l’uragano Andre del 1992 che Richard Sandor e Ken Froot, due economisti della Wharton Business School della University of Pennsylvania, pubblicarono uno studio in cui proposero l’invenzione dei Cat Bonds. E' un caso estremamente raro nella storia dell’economia di uno strumento finanziario nato non dalla prassi ma dall’elaborazione di due teorici. Dopo qualche anno di discussione i primi Cat Bond furono messi in vendita nel 1996. I due giri di boa che ne hanno permesso il decollo sono stati l’attacco alle Torri Gemelle e Katrina, ognuno dei quali ha portato il business a raddoppiare. Le società di riassicurazione hanno costituito degli Special Purpose Vehicle (Spv) con sede a Cayman, Bermude o Irlanda proprio per gestire questo tipo di attività.
E se il mercato può aiutare ad alleviare gli effetti delle catastrofi, può essere invece proprio lo statalismo assistenzialista a peggiorarli. Lo sottolineato l'Economist, che ha scritto come negli ultimi decenni il miglioramento di sistemi di allarme e di protezione ha drasticamente ridotto il numero delle vittime: nel poverissimo Bangladesh il ciclone del 1970 uccise mezzo milione di persone, quello del 2007 – il più disastroso degli ultimi anni – ha provocato 4.234 morti. Il costo economico tende invece ad aumentare di almeno il 6 per cento l'anno, secondo i dati dell'Oms (Organizzazione mondiale della Sanità). Anche perché il numero di persone che abitano in aree a rischio di uragani tra il 1970 e il 2010 è triplicato. Effetto della sovrappopolazione o del cambiamento climatico? Secondo l'Economist, per lo meno negli Stati Uniti ci sarebbe anche un effetto perverso dei sussidi federali per aiutare a pagare le assicurazioni delle case più esposte agli uragani. Il sistema del National Flood Insurance Programme (Nfip) incoraggia a ricostruire in zone particolarmente esposte dove sarebbe invece più saggio sgomberare. Le statistiche mostrano chiaramente che il 25-30 per cento delle richieste fatte all'Nfip riguardano l'1 per cento delle abitazioni che invece – senza sussidi statali – sarebbero state abbandonate per il costo insostenibile di assicurarle.