Se Toys “R” Us è costretta a chiudere la colpa è sua, non solo dell'e-commerce
Il colosso globale della distribuzione di giochi per bambini, ha richiesto l’accesso al Chapter 11, la procedura di bancarotta con relativa protezione dei creditori. Troppo semplice dare esclusivamente la colpa a Amazon o al digitale
Dopo la catena KB Toys e lo storico FAO Schwarz sulla Quinta Strada newyorkese, ecco un’altra vittima nel settore brick-and-mortar (negozi fisici) dei giocattoli: Toys “R” Us, colosso globale della distribuzione di balocchi per bambini, ha richiesto l’accesso al Chapter 11, ovvero la procedura di bancarotta con relativa protezione dei creditori.
I numeri parlano da soli: 5 miliardi di debiti, di cui 400 milioni da restituire entro il prossimo anno, con 850 milioni già rinegoziati con i creditori per il rinvio che ha portato Standard & Poor’s a tagliare il rating portando le sue obbligazioni verso la categoria “investimento spazzatura”. Tutto questo arriva nel periodo del massimo investimento corrispondente al rifornimento in vista del Natale, dove vengono sviluppati i 40 per cento degli incassi annuali.
Una parte dei guai ha origine finanziaria a causa di cattivi operazioni con fondi di investimento nel periodo pre-crisi del 2008, poi è arrivato il terremoto che ha coinvolto gran parte dei comparti commerciali e industriali. Molti giornali e commentatori nel raccontare le ragioni della bancarotta imputano il crollo commerciale principalmente a Amazon, da una parte, e a Walmart, il supermercato generalista che spesso vende sottocosto per sottrarre quote di mercato ai concorrenti, dall’altra. Nonostante la catena di giocattoli con sede a Wayne nel New Jersey avesse da qualche anno implementato la propria piattaforma e-commerce, il gigante di Jeff Bezos lo scorso anno ha venduto giocattoli per 4 miliardi di dollari, con una crescita del 24 per cento, mentre per il quinto anno consecutive le vendite totali di Toys “R” Us sono andate in negativo (-5 per cento nel 2016).
Forse però è il caso di fare un ragionamento non tanto in termini di distribuzione quanto in quelli di prodotto: il “giocattolo” in questi ultimi dieci anni è profondamente mutato e gran parte dei big del settore sono oggi impegnati a rispondere alla domanda di bambini che fin dall’infanzia maneggiano smartphone e tablet più che soldatini e bambole. L’impatto della tecnologia digitale è stato devastante: marchi come Mattel e Fisher-Price, un tempo leader indiscussi del comparto, stanno vivendo crisi di mercato con quote in picchiata e amministratori delegati che durano il tempo di due-tre trimestri. Altre aziende come Lego, alle prime avvisaglie, hanno invece ripensato al mattoncino come a un modulo versatile che può diventare anche un pixel o un bit, cioè altre unità base di costruzione e creazione di altri mondi, anche digitali, entrando con decisione nel mondo nel mondo dei videogiochi, stringendo strategici accordi con Disney, DC Comics e Warner Bros, creando prodotti per tutte le piattaforme fisiche e digitali.
Già la scorso anno a Manhattan non vi era più nessuna grande catena di giocattoli propriamente detta – il megastore Toys “R” Us di Times Square ha chiuso a fine 2015 – mentre ai flagship store di Apple, Nintendo e, appunto, Lego, c’era la fila di clienti fuori dal negozio.
Non è una storia nuova, l’abbiamo già vista con copioni simili nel mondo della discografia, editoria e dell’home entrartainment. Il caso di Toys “R” Us risponde perfettamente alla classica logica del “pesce grande mangia pesce piccolo”: negli anni Ottanta e primi Novanta infatti era stata proprio la grossa catena ad avere fatto chiudere centinaia di piccoli e medi negozi di quartiere giocando sul vasto assortimento e a grandi economie di scale.
Sarebbe troppo semplice dare esclusivamente la colpa a Amazon o al digitale: il commercio rimane sempre una questione di relazione con il pubblico che, mutando il contesto, ha bisogno di nuove esperienze che si possono sempre far vivere in un negozio fisico. Toys “R” Us, così come le case discografiche e i noleggiatori di videocassette, non ha voluto modificare la proprio visione strategica o aprirsi al cambiamento, continuando a trovare scorciatoie per rimandare i pagamenti del debiti e nascondendosi dietro convinzioni fuori tempo massimo.
tra debito e crescita