Vere questioni sul meridione

Salvatore Rossi

Il Sud è gravato da gravi inefficienze dove i soldi non mancano mai. Istruzione, Sanità e Giustizia. Per affamare l’assistenzialismo e fare emergere il buono che c’è serve coraggio

Io sono meridionale, figlio di meridionali. Quindi sono autorizzato a parlar male del sud quando serve, come farò in questo articolo. Naturalmente sono legato alla mia terra: quando altri ne sparlano con argomenti superficiali o sbagliati provo un sordo sentimento di avversione; puntualizzo e rettifico, almeno nella mia testa, se non posso o non voglio polemizzare di persona. Ma ancor più m’indigno quando sono i miei conterranei a usare gli argomenti sbagliati, o fuorvianti, o anche solo ambigui.

 

Sulla “questione meridionale” abbiamo letto sia analisi serie sia proclami superficiali. Di detrattori come di difensori del Sud. I manifesti lasciano il tempo che trovano, almeno fra le persone avvedute, e non me ne occuperò qui (su una vicenda recente si possono però utilmente leggere Alessandro Laterza e Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera del 6 e del 9 agosto 2017, rispettivamente). Vorrei invece cercare di discutere la spinosissima questione del divario Nord-Sud per mezzo di analisi serie. Ne userò in particolare due, tratte dal grande laboratorio del Servizio studi della Banca d’Italia di cui ho fatto parte per tanti anni (oggi si chiama Dipartimento economia e statistica, ma è più noto con quell’altro nome).

 

Nel capitolo introduttivo di un rapporto sul Mezzogiorno pubblicato nel 2009 si offriva un quadro riassuntivo del confronto macroeconomico fra Sud e Nord. Lo ripropongo, avvertendo subito che i dati non sono sostanzialmente cambiati da allora. Al Sud risiede un terzo della popolazione italiana, ma vi si produce un quarto del pil complessivo, un quinto del pil del settore privato e si esporta un decimo; vi si concentra invece quasi metà dei disoccupati italiani e i due terzi dei cittadini poveri, secondo la definizione di povertà relativa. Dalla seconda metà degli anni Settanta l’inseguimento che il sud aveva iniziato con qualche successo nei confronti del Nord si è fermato: il prodotto pro capite a valori correnti al Sud era poco più di metà di quello del centro-Nord nel 1951; si innalzò fino a circa il 60 per cento nella prima metà degli anni Settanta; da allora è ridisceso, al 56 per cento due anni fa, secondo gli ultimi dati disponibili (ottenuti combinando opportunamente le fonti Istat e Svimez).

 

Questi sono fatti noti, anche se spesso dimenticati. Il bilancio pubblico nazionale se ne occupa? Troppo, lamentano alcuni settentrionali, poco, ribattono alcuni meridionali. Cerchiamo di capire.

 

Dal Nord al Sud d’Italia c’è, da sempre, un travaso di risorse pubbliche stimabile in quasi il 4 per cento del pil nazionale l’anno, dovuto a un meccanismo semplice: le entrate tributarie sono correlate al reddito dei contribuenti, che è strutturalmente più basso al Sud, mentre la spesa pubblica è uniforme nel paese, perché essa intende fornire a tutti i suoi cittadini lo stesso livello di servizio pubblico in tutti gli ambiti (istruzione, sanità, giustizia, e così via), anche indipendentemente dalla ricchezza o povertà dei cittadini medesimi. Quindi è la spesa pubblica universalistica il principale motore di redistribuzione delle risorse fra settentrionali e meridionali, anche al costo di agire al contrario fra ricchi e poveri: un ospedale pubblico cura altrettanto gratis (o quasi) sia i cittadini di Torino sia quelli di Bari, ma anche sia i ricchi sia i poveri.

 

Il punto principale di quel rapporto è che questo meccanismo redistributivo fra aree del paese ha funzionato poco e male, a causa di una gestione dei servizi pubblici che, a parità di risorse finanziarie, è molto peggiore al Sud che al Nord.

 

Questo dato di fatto contribuisce a perpetuare la minorità del Sud, insieme con (anzi, determinando) la più bassa capacità di fare impresa e di produrre beni e servizi con efficacia competitiva.

 

Da qui scaturiva un suggerimento, anzi un appello accorato, ai responsabili delle politiche pubbliche. Non confidate granché negli interventi “straordinari” al Sud, si diceva, quegli interventi che si aggiungono alle politiche nazionali ordinarie per cercare di stimolare la dinamica economica selezionando settori e imprese presunti meritevoli. Perché dopo la stagione della Cassa per il Mezzogiorno, nel ventennio d’oro 50 e 60, non funzionano più, si sono trasformati in macchine per la corruzione e lo spreco. E’ meglio, molto meglio, imparare a usare i fondi strutturali europei e, soprattutto, ripensare le politiche generali (appunto: istruzione, sanità, giustizia e così via), rassegnandosi all’idea che la loro applicazione è diversissima nei vari territori e pensando a meccanismi d’incentivo/disincentivo che cerchino di ridurre il deficit di efficacia del Sud. Rendere cioè le politiche nazionali generali place-based, per usare una locuzione introdotta da Fabrizio Barca in un suo saggio pure del 2009. Se i servizi pubblici al Sud fossero di qualità migliore anche le imprese insediate al Sud produrrebbero meglio, il divario di sviluppo col Nord si ridurrebbe, tutto il paese ne beneficerebbe in termini di crescita economica e di livello di benessere complessivi.

 

Credo che i risultati di quella ricerca siano più attuali che mai. Occorre farsi una domanda però: da che cosa dipende quel differenziale di efficacia dei servizi pubblici generali che il Rapporto documentava?

 

Per tentare di rispondere bisogna citare un po’ di esempi concreti di queste differenze. Ne rammento tre, su altrettanti grandi capitoli di spesa pubblica: l’istruzione scolastica, la sanità, la giustizia. Gli ultimi test del Program for international student assessment (Pisa) fatti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) segnalano per le regioni del Sud punteggi in media inferiori di circa il 10 per cento a quelli del resto d’Italia, in ciascuna delle tre competenze rilevate (lettura, matematica e scienze). Secondo i dati del ministero della Salute, la quota di parti cesarei primari sul totale dei parti, un indicatore convenzionale di inappropriatezza delle cure, è pari nel sud a oltre il 27 per cento, contro il 19 nel resto d’Italia. La durata media effettiva dei procedimenti giudiziari definiti nel contenzioso ordinario e commerciale, rilevata dal ministero della Giustizia, è di quasi quattro anni al Sud, contro due anni e mezzo nel resto d’Italia.

 

Non è questione di soldi. Non c’è carenza relativa di risorse finanziare al Sud in nessun ambito dell’azione pubblica. Anzi, il numero di insegnanti, medici, giudici e cancellieri al Sud è in media superiore al resto del paese: 10 docenti ogni 1.000 studenti invece che 9 (ministero dell’Istruzione); 22 medici ogni 10.000 residenti invece che 20 (Ragioneria generale dello stato); addirittura 51 giudici e oltre 310 operatori amministrativi ogni milione di abitanti invece di 36 e 180 (ministero della Giustizia).

 

E’ evidente che le differenze possono spiegarsi solo, come dicono pudicamente i sociologi e gli economisti, con la minore dotazione al Sud di “capitale sociale”, quella grandezza intangibile che ha a che fare con il senso civico dei cittadini, con la fiducia verso gli altri, con la partecipazione alla vita comunitaria. E’ una grandezza difficile da definire quando c’è, è più facile vederne gli effetti quando manca: basta l’esperienza pratica che tutti possono fare del modo di funzionamento della società meridionale; che spesso conferma stereotipi e pregiudizi. E’ un concetto che non riguarda solo il Nord e il Sud d’Italia, ma quelli di tutto il mondo. Il cittadino tedesco medio guarda in prima approssimazione all’Italia tutta come a un grande Sud.

 

Non ho alcuna intenzione né ambizione di passare in rassegna la sterminata letteratura sociologica ed economica che si è occupata di capitale sociale. Quel che conta è che, per ragioni le cui radici affondano nella storia anche remota, esso è meno robusto al Sud che al Nord. Lo conferma un altro rapporto della Banca d’Italia, del 2014, che ha anche indagato le ragioni storiche di questo divario e ne ha misurato gli effetti sul minore sviluppo economico del Sud, trovandoli molto rilevanti. Ma alla domanda: se il fenomeno è radicato e antico, vuol dire che non c’è niente da fare? ha risposto di no. Il capitale sociale di una comunità può cambiare senza che passino secoli, non è solo l’eredità immutabile del passato. E’ difficile farlo cambiare, questo sì. E’ maledettamente difficile, ma dobbiamo provarci. E’ nostro dovere farlo. Dovere di noi meridionali, in particolare.

 

Come? Intanto facendo leva sui cambiamenti già avvenuti. Sì, perché il Sud d’Italia non è uniformemente sottosviluppato: vi sono isole felici di buona impresa privata e di buona amministrazione pubblica, accanto a isole infelicissime in cui impresa e amministrazione languono. Le ragioni di queste diversità nella diversità vanno analizzate e se ne può fare, già si è cominciato, il fulcro di un’azione pubblica volta a irrobustire l’esile capitale sociale del Sud, specialmente nelle aree che più ne hanno bisogno.

 

Le politiche pubbliche che offrono servizi universalistici sono fondamentali. La qualità dei servizi pubblici dipende certo dal civismo di chi li eroga e dei cittadini-utenti, ma è anche vero il viceversa: se la qualità migliora anche l’ambiente civico migliora.

 

Ma come fa il governo nazionale, quando disegna una politica generale (ad esempio per l’Istruzione, per la Sanità, per la Giustizia), a tener conto del fatto che poi, applicata da singoli funzionari locali (insegnanti, medici, giudici), quella politica avrà un’efficacia molto diversa da regione a regione? Può, appunto, incentivare quelle persone a far bene, o scoraggiarle dal far male, attraverso le retribuzioni nette, le carriere, lo status sociale. Ovviamente azioni di questo tipo sono tanto più efficaci quanto più sono esercitate con continuità, coerenza e vigore.

 

C’è un’importante asimmetria: gli incentivi (sussidi, bonus retributivi, sgravi fiscali) fanno guadagnare voti, i disincentivi (costi aggiuntivi, decurtazioni retributive, sovrappiù fiscali) li fanno perdere; peccato che i primi siano costosi per l’erario, i secondi no. Anche quando i disincentivi colpiscono pochi furbi, che fanno il mio danno con i loro comportamenti scorretti, io oriento il mio voto non contro i furbi ma contro il governo che li colpisce, perché domani potrebbe toccare a me essere nel mirino, quindi è meglio lasciare tutto com’è. Questo riflesso culturale ed elettorale è molto comune, lo esibiscono anche persone insospettabili, soprattutto al Sud. Una considerazione di questo tipo, di political economy direbbero gli economisti, non può essere ignorata se vogliamo essere realisti. Comunque una soluzione tecnica, anche compromissoria, per contemperare le esigenze di efficienza nel lungo periodo con quelle elettorali di breve termine si può trovare.

 

Dove la politica e i politici devono invece esibire coraggio e determinazione è nella lotta all’illegalità. Sappiamo che al Sud l’illegalità diffusa, in particolare l’abusivismo edilizio e la corruzione, è molto più presente che al Nord, pur non essendo affatto prerogativa esclusiva dei meridionali. Qui non è più solo questione di incentivi o disincentivi ex ante, è anche e soprattutto questione di sanzioni, sia contestuali sia ex post. Sanzioni serie, applicate con sistematicità e severità. Condanne penali ma anche sanzioni civili.

 

Occorre veramente un salto di qualità nella risposta degli apparati repressivi. Non possiamo più tollerare le orribili immagini che il Sud ci ha regalato per tutta l’estate, di boschi incendiati dolosamente o di morti causati da terremoti che non dovrebbero causarne. Questo è il Sud che non vogliamo. Quello che vogliamo è il Sud delle imprese di successo, della gente premurosa e accogliente, delle strade pulite. Si può fare, purché si tenga sempre presente che non stiamo parlando solo di economia: il progresso del Sud è insieme politico, civile e culturale.

 

Un’ultima avvertenza. Quando si tratta di analizzare un’economia, una società, una storia politica, nessuno può dire di avere la verità in tasca, nessuno può distribuire il vero e il falso come fossero gettoni. Chiunque studi i comportamenti individuali e collettivi degli esseri umani sa di non poter applicare a essi i paradigmi della scienza galileiana. Quindi niente determinismi, niente automatismi. Tutt’al più si può sperare di trovare qualche regolarità storica, probabilisticamente verificabile per qualche tempo, finché i comportamenti della gente non finiscano per cambiare.

 

Quindi anche una vicenda antica e complessa come quella della diversità di sviluppo fra Sud e Nord d’Italia non può essere affrontata con affermazioni apodittiche. Vi è una differenza percepibile a occhio nudo fra le due categorie che citavo all’inizio: da un lato, le analisi serie, disseminate di dubbi, che si sforzano di trovare e usare i dati migliori, che citano con scrupolo tutte le fonti statistiche e le riflessioni passate degli altri; dall’altro, i proclami, quelli che si basano solo sul “sentito dire”, quando non sui propri fantasmi personali. Le prime richiedono tempo, intelligenza, disponibilità alla critica (costruttiva). I secondi sono effimeri, ciechi, insofferenti di qualunque obiezione. Bisogna liberarsi di questi ultimi, da qualunque parte provengano, se si vuole avanzare anche solo di un passo.

 

 

Salvatore Rossi è Direttore generale della Banca d’Italia e presidente dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni

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