Nasce a Milano il distretto italiano della finanza online
Forza e debolezze delle banche nella lunga rivoluzione del capitale digitale. Parlano gli esperti di Credimi e CheBanca!
La finanza digitale ha trovato casa a Milano dove si aprirà un nuovo capitolo per un settore che, nel mondo, sta crescendo sempre più e che nel 2020 minaccia di drenare un terzo dei volumi del business bancario.
Oggi viene inaugurato il Milan Fintech District, un'area per lo sviluppo della finanza innovativa e tecnologica. All’evento ci saranno Pier Carlo Padoan, ministro dell'Economia, Giuseppe Sala, sindaco di Milano, i rappresentati di Banca d'Italia e di Consob, infine gli imprenditori italiani del settore.
Oltre a promuovere il primo polo italiano del fintech, però, si discuterà sostanzialmente delle regole per favorire le giovani imprese. Ed è chiaro ormai quanto sia necessario andare oltre il tema degli incentivi e chiedere al Mef e alle autorità di rendere il fisco e le regole “amici” dell’innovazione. È forse l’epilogo di un tavolo attivo da tempo tra istituzioni e imprenditori, che ha portato proposte mirate alla semplificazione con un impatto potenzialmente dirompente.
Partecipa alla presentazione e al gruppo di lavoro sulla finanza elettronica anche Ignazio Rocco di Torrepadula, fondatore di Credimi, piattaforma digitale per il finanziamento alle imprese. “Tra le proposte in discussione cito il regime di autorizzazione provvisoria per le imprese specializzate in servizi bancari – dichiara - In Italia qualsiasi strumento di pagamento elettronico innovativo deve essere presentato da imprese sottoposte a iter autorizzativi onerosi e lenti, che scoraggiano molti imprenditori. In Gran Bretagna, dove ha sede la maggior parte delle aziende fintech, basta presentare un documento descrittivo alla Financial Committee Autority e ottenere, così, un’autorizzazione provvisoria. Solo al raggiungimento di un determinato target (di clienti o fatturato ad esempio) la società è tenuta a strutturarsi in maniera più complessa”.
A Londra ci sono già 400 istituti di pagamento non bancari attivi. “Ecco perché gli imprenditori italiani aprono le proprie sedi a Londra piuttosto che da noi. Ed ecco come si potrebbero riportare a casa innovative realtà imprenditoriali, solo snellendo questo iter autorizzativo”.
Sul fronte impresa, l’ultimo World Retail Banking Report di Capgemini di giugno parla chiaro: banche e operatori specializzati nel fintech devono collaborare sempre di più nella direzione dell’open banking, creare flussi di informazioni tra le parti per migliorare l’assistenza al cliente e dargli i servizi che vuole, in maniera sempre più personalizzata. L’Italia non è un mercato arretrato, visto che si posiziona al 17esimo posto su scala mondiale e il livello di soddisfazione dichiarato dai clienti è piuttosto elevato (intorno al 60%). Uno degli impegni dei finanziatori è scoprire i talenti, ossia le start up che si inventano un business legato alla tecnologia finanziaria. La corsa vede sfidarsi Intesa Sanpaolo (che ha lanciato Neva Finventures per le startup e ha aderito all’incubatore The Floor con Rbs, Hsbc e Santander), Unicredit (che punta sul suo fondo ad hoc “Evo”) e il precursore Banca Sella. L’istituto piemontese è stato tra i primi ad aver costituito il suo incubator Sella Lab e ha ottenuto una sorta di riconoscimento “tangibile” nel grattacielo di Banca Sella in Porta Nuova a Milano, presentato appunto domani. Banca Intesa ha aperto l’innovation center a Torino.
Ma al netto dei finanziamenti e della ricerca di imprese promettenti, le banche devono avanzare nella finanza tecnologica: “Gli istituti di credito - dice Rocco di Torrepadula - dovrebbero strutturare una piattaforma cioè una struttura di clienti, dati, servizi bancari sui quali gli sviluppatori esterni possano proporre innovazioni. Pensiamo al Bbva Api market, un sistema istituito dal gruppo spagnolo che dialoga con le altre aziende creditizie per le informazioni sulla storia dei propri clienti".
“Se le banche non coglieranno questo treno, rischiano grosso – continua Torrepadula - Ci sono paesi che sono già molto avanti: in Cina transano su internet già 100 miliardi di dollari l’anno (il quadruplo degli Stati Uniti). Non tutto, naturalmente, potrà transitare sulla rete. Ad esempio i finanziamenti corporate prevedranno sempre degli intermediari fisici essendo molto complessi. Negli ultimi tre anni solo su Londra il fenomeno ha generato investimenti per circa 3,7 miliardi, surclassando il resto d’Europa (la seconda classificata Berlino è a 670 milioni mentre l’Italia, molto più in basso, è a 30 milioni). L’effetto sociale è dirompente: ormai i venture capital investono massicciamente nelle piccole aziende, e il 60% di questi fondi vanno ai lavoratori del fintech che in questo modo sviluppano nuove professionalità e nel tempo le trasferiscono, con effetto sciame su altre realtà”.
Non siamo ancora alla fintech-mania, ma nei prossimi dieci anni si stima che la transizione alla finanza elettronica sarà completa, quando l’accesso sarà pressoché diffuso tra le persone comuni.
In ambito europeo, un mercato dai contorni più maturi sta portando fusioni, partnership ma anche momenti comuni per selezionare realtà da finanziare: sempre Bbva ha acquisito le società del credito online Holvi e Simple, Deutsche Bank ha portato a casa un accordo con l’incubatore Startupbootcamp. È attiva anche Bank of England mentre BNP Paribas ha lanciato una “maratona” per scovare start up di talento.
La selva delle applicazioni possibili in ambito finanziario va dell’uso delle cosiddette cryptovalute (dal bitcoin in poi), ai prestiti e pagamenti istantanei (via smart phone ad esempio), passando per l’internet delle cose (dispositivi che assumono identità elettroniche), e l’equity crowdfunding (la raccolta alternativa di capitale di rischio).
La domanda, per l’utente medio, è sostanzialmente avere servizi istantanei che siano trasparenti, facilmente accessibili e mobili. Rocco di Torrepadula porta l’esempio della sua iniziativa attraverso la quale singole aziende presentano online fatture che poi vengono liquidate entro 48 ore e si pone come sistema alternativo di finanziamento ma anche come una forma di investimento per istituzionali che posso acquistare i crediti relativi alle fatture cedute. Pensiamo poi, sul fronte dei clienti individuali, a quanto potrebbe essere pervasiva un’applicazione bancaria su whatsApp o su Facebook, servizi sui quali ci sono già accordi in corso. Caratteristiche che spesso contrastano con un sistema, quello delle banche tradizionali, un po’ imbrigliato, con strutture di costi pesanti e gravate di tante regole. Tanto che Giuseppe Vegas (Consob) in primavera aveva evidenziato la necessità di regolamentare il settore per mettere un freno agli aspetti più incontrollabili di questa rivoluzione velocissima.
Per cambiare mentalità, le banche devono però pensare in più direzioni. Magari cominciando a dare maggiore spazio a manager sotto i 35 anni. "Solo così un gruppo imprenditoriale nato tanti anni fa nella old economy può comprendere le esigenze di una società eterogenea offrendole ciò che cerca" dice il fondatore di Credimi.
In fondo il fintech è un’accelerazione “al quadrato” di una trasformazione iniziata negli anni Settanta (e forse anche prima con le carte di credito). Lo ricorda Roberto Ferrari, chief digitaland innovation officer del Gruppo Mediobanca, che parteciperà all’incontro di domani ed è convito che la digitalizzazione ha solo messo il turbo ad alcune tendenze. “Oggi grazie all’home banking il 90 per cento delle operazioni avviene online, ecco perché tante filiali sono state chiuse. Poi è arrivato il mobile banking e il mercato ha subito un’ulteriore corsa al progresso. Quello che l’home banking ha fatto in dieci anni, la banca dal cellulare lo ha realizzato in cinque”. Dunque il fintech è già connaturato al sistema bancario, che “deve attingere necessariamente alle giovani aziende tecnologiche nate in questi anni, in grado di apportare alle banche un know how evoluto”. “Non c’è pericolo che il fintech cannibalizzi il sistema bancario tradizionale – secondo Ferrari – perché la tecnologia applicata alla finanza può in realtà trasformare la banca e soprattutto rilanciarla in chiave internazionale. A patto che l’Italia si allinei al resto d’Europa, eliminando quelle norme che penalizzano lo sviluppo delle innovazioni e garantendo al sistema nazionale di concorrere alla pari con gli operatori stranieri”.