Un'immagine di Taormina (foto gnuckx via Flickr)

Perché il Mezzogiorno, per svoltare, ha bisogno di un piano

Giorgio La Malfa

I dati ci dicono che molti degli stereotipi sul Sud sono falsi. Il problema è che le risorse tendono a essere disperse in troppi interventi senza una visione complessiva delle priorità e degli obiettivi

A un certo punto, due anni fa, dall’indagine-censimento che annualmente la Fondazione La Malfa, in collaborazione con l’Area studi di Mediobanca, compie sui dati di bilancio delle imprese industriali localizzate nel Mezzogiorno (nella sostanziale disattenzione delle autorità nazionali e regionali), è emerso un dato inaspettato.

 

E’ venuto fuori che, dopo i lunghi anni di crisi iniziati nel 2008, le imprese di media dimensione localizzate nel Mezzogiorno, pur essendo numericamente poche ed essendosi ulteriormente ridotte di numero in questi anni (a fine 2016 sono sì e no 200 su un totale, in tutta Italia, di oltre 3200 imprese) hanno però raggiunto strutture e risultati analoghi a quelli del resto del Paese. Dai bilanci emerge un’analoga produttività, un’analoga incidenza del costo del lavoro sul fatturato, una quota delle esportazioni molto vicina a quella delle imprese del cosiddetto “quarto capitalismo” e una analoga redditività.

 

Cito questi dati perché essi contraddicono molti degli stereotipi che circolano sul Mezzogiorno e corroborano invece l’affermazione principale dell’articolo apparso sul Foglio del 20 settembre del Direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, che il Mezzogiorno non è solo sottosviluppo, ma “vi sono – come scrive – isole felici di buona impresa privata e di buona amministrazione pubblica”.

 

Se è così, bisogna prendere atto di queste realtà e costruire intorno ad esse ed a partire da esse. Scrive Salvatore Rossi che  “non è questione di soldi. Non c’è carenza relativa di risorse finanziarie”. Questo è vero in generale, ma il problema è che le risorse tendono a essere disperse in troppi interventi senza una visione complessiva delle priorità e degli obiettivi.

 

 

Non esiste un programma di grandi opere pubbliche nel Mezzogiorno che il governo e le regioni abbiano concordato come prioritarie; non è affatto chiaro il programma ferroviario per il Sud, né il programma stradale. A un certo punto il governo Renzi ha dichiarato che riprendeva il progetto del Ponte sullo Stretto. Era una boutade? Un disperato tentativo di salvare il referendum costituzionale? O un progetto? E qual è la posizione del Governo Gentiloni? Qual è il disegno sulla portualità, in un momento in cui il Mediterraneo è ancora centrale ai traffici fra l’Asia e l’Occidente, prima che si aprano le rotte dell’estremo Nord? Qual è il programma degli aereoporti in relazione alle prospettive delle produzione agricole e industriali del Sud ed a quelle del turismo? Oggi si procede nella confusione più totale, senza alcun coordinamento fra lo Stato e le regioni, né ovviamente delle regioni fra loro.

 

Circa l’industria, che continua ad essere la sola speranza di risolvere strutturalmente il problema della disoccupazione meridionale, non si vede alcuna riflessione su come moltiplicare i casi di successo che emergono dai dati. Bisognerebbe individuare delle zone in cui concentrare gli sforzi e gli incentivi per gli insediamenti industriali – una per regione, al massimo due per le regioni più grandi – e prevedere per chi si insedia in esse gli incentivi fiscali, quelli della legge dell’industria 4.0 del ministro Calenda, le varie provvidenze sui costi del lavoro ed inoltre le infrastrutturazioni, i collegamenti con le banche e con le università. Se questo vi fosse sarebbe anche più semplice organizzare quello che Rossi giustamente chiede, cioè un forte presidio di legalità.

 

In realtà, proprio perché si tratta di sviluppare quel fattore “impalpabile” che Rossi chiama “capitale sociale” e con cui si allude al senso civico, il Mezzogiorno avrebbe bisogno oggi, più che mai, di un progetto complessivo, di un programma, di un piano, se non avessimo paura di usare una vecchia parola che ha avuto una storia non felice.

 

Non ne ha bisogno il Nord del paese che ha una spinta spontanea ancora abbastanza forte, nonostante la crisi economica internazionale e le politiche economiche asfittiche che l’Italia ha fatto in questi anni. Ma ne ha assoluta necessità il Mezzogiorno. Vi fu, seppure disordinatamente, un piano negli anni ‘50 e ‘60 attraverso la Cassa per il Mezzogiorno ed è per questo che in quel venticinquennio, come ricorda Rossi, il divario Nord-Sud si è ridotto. Non lo ha più avuto da allora e non lo ha oggi. Se il governo lo mettesse a punto, darebbe alla questione meridionale una svolta. Attesa da troppo tempo.

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