Il conflitto generazionale non è un inganno, esiste nella realtà e nei numeri
Analizzando meglio i dati l’incidenza della disoccupazione giovanile si attesta al 10 per cento, pochi decimali sopra alla media europea
Roma. I nuovi dati dell’Istat sull’occupazione confermano il leggero ma costante trend positivo: aumentano gli occupati e in particolar modo le donne, il tasso di occupazione sale al 58,2 per cento (più 1 sull’anno e ritorno ai livelli del 2008), continuano a calare gli inattivi, si riduce ancora un poco il tasso di disoccupazione (meno 0,2 ) che scende all’11,2 per cento. C’è solo un dato che, anche se in miglioramento, non è mai soddisfacente visto il livello di partenza: la disoccupazione giovanile. Anche se il mese di agosto è stato particolarmente positivo per i giovani, una riduzione della disoccupazione di 0,2 punti è poca roba quando il tasso di disoccupazione resta al 35 per cento, tra i più alti d’Europa.
Nel loro nuovo libro dal titolo “L’inganno generazionale” (Università Bocconi editore), le economista Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo svelano che in realtà il tasso monstre della disoccupazione giovanile è una “bufala”, o meglio un inganno statistico, dovuto al modo con cui gli istituti di statistica calcolano il dato, che amplifica il fenomeno. Depurando i dati dalle differenze tra stati europei rispetto all’età di entrata nel mercato del lavoro e dal doppio conteggio degli studenti a tempo pieno che hanno svolto lavori stagionali (paradossalmente il fatto che più studenti cerchino occupazione fa aumentare il tasso di disoccupazione), l’incidenza della disoccupazione giovanile in Italia si attesta al 10 per cento, pochi decimali sopra alla media europea. Dire che 1 giovane su 3 è disoccupato, come semplicisticamente riportano i media, e dire che 1 giovane su 10 è disoccupato sono due cose molto diverse.
Allo stesso modo, attraverso l’analisi dei numeri, Del Boca e Monda fanno qualcosa di non molto popolare in questo periodo, ovvero difendere gli obiettivi e i risultati di due riforme strutturali sotto attacco importanti per i giovani, come la riforma Fornero e il Jobs Act. Anche se si può discutere sull’uso e sui risultati della decontribuzione – che sono un provvedimento collegato ma diverso dalla riforma del lavoro – non c’è dubbio che il Jobs Act abbia ridotto la litigiosità e reso più fluido il mercato del lavoro, agevolando chi come i giovani era escluso e faceva fatica a inserirsi. Stesso discorso per la riforma delle pensioni, in un paese in cui a 100 occupati corrispondono 71 pensionati e in cui, senza la riforma Fornero, nel giro di qualche anno ogni lavoratore avrebbe dovuto mantenere con i propri contributi almeno un pensionato. Non è quindi mandando prima gli anziani in pensione che si liberano posti di lavoro per i giovani, anche perché non si tratta di lavoratori che hanno le stesse competenze, ma lavorando insieme per crearne di nuovi.
Pur ridimensionando i dati più allarmistici, Del Boca e Mundo non negano che ci sia una questione giovanile: l’Italia ha un bassissimo livello di laureati rispetto ai paesi europei, ha il tasso più elevato di Neet (ragazzi che non studiano, non cercano lavoro né fanno formazione) e su tutto il paese pende un problema demografico per il tasso bassissimo di natalità. Se i giovani hanno tanti problemi è anche perché si spende poco in istruzione e ricerca, formazione e sostegno alla famiglia.
L’analisi è corretta. Ma rispetto a questo quadro, la tesi del libro secondo cui non c’è un “conflitto generazionale – definito varie volte “inganno”, “presunto” o “inesistente” – è un non sequitur. Se rispetto agli altri paesi europei l’Italia spende di meno in università e ricerca, sostegno alla famiglia, formazione e politiche attive, dipenderà anche dal fatto che ha una spesa per pensioni più alta al mondo? Se in Italia il rischio di povertà dei giovani aumenta, anziché diminuire, dopo l’intervento dello stato vuol dire che esiste un problema? Forse dipende dal fatto che l’84 per cento della spesa assistenziale è rivolta agli anziani? Se negli ultimi venti anni i redditi di giovani (meno 20 per cento) e anziani (più 20 per cento) hanno imboccato strade opposte, dipenderà dal fatto che c’è un sistema redistributivo che avvantaggia qualcuno e penalizza qualcun altro? Probabilmente non è corretto dire che ci sia un “conflitto generazionale” nel senso che il termine presuppone uno scontro, tra chi agisce e chi reagisce, mentre in questo caso l’azione è unilaterale: c’è chi agisce e chi subisce. Ma è abbastanza arduo sostenere che l’attuale sistema sia basato sulla cooperazione tra generazioni.
Le autrici provano a farlo con un paragone: “Non c’è conflitto tra la crescita delle professioni, tra creativi e ingegneri: c’è piuttosto complementarità. Proprio come non c’è conflitto tra anziani e giovani”. Ecco, il parallelismo non è proprio azzeccato. Non fosse altro per il fatto che lo stipendio dei creativi non è una pensione pagata dagli ingegneri.