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L'insana ossessione per il surplus commerciale

Carlo Lottieri*

Perché mai esportare sarebbe meglio che importare?

Una (sottile) ironia vi seppellirà. Questa formula potrebbe racchiudere larga parte della magia che promana dalle pagine di Frédéric Bastiat: certamente uno tra i più geniali scrittori di economia e scienze sociali del diciannovesimo secolo e, in quel tempo, uno tra i più letti e discussi. Vilfredo Pareto, ad esempio, sarà molto segnato dalla sua lezione e i suoi scritti giovanili manifestano ampiamente l’influenza esercitata dallo studioso francese.

  

Nel passo sotto riportato, tratto dai Sophismes économiques, Bastiat prende di petto una nozione cruciale della contabilità nazionale, la cosiddetta “bilancia dei pagamenti”, e lo fa allo scopo di offrire argomenti alla campagna contro il protezionismo che, negli anni Quaranta dell’Ottocento, egli va conducendo sulla scorta di quanto stava avvenendo nell’Inghilterra di Richard Cobden e dell’Anti-Corn Law League.

  

Il modo di argomentare di Bastiat può apparire paradossale, ma non lo è. Al contrario, egli mostra alcune falle concettuali di ogni “valutazione” in forma aggregata del funzionamento dei sistemi economici: così che quando un produttore di una quantità di vino (valutata 50 franchi) esporta il proprio prodotto e, con il ricavato, importa carbone che riesce a vendere in Francia per 90 franchi, chi segue l’andamento dell’economia nazionale vede in tutto ciò un problema da risolvere. Peggio: una perdita a cui porre rimedio.

   

Nel linguaggio degli economisti, in effetti, la bilancia commerciale appare caratterizzata da una passività, poiché se le importazioni superano di 40 franchi le esportazioni questo significa che l’economia nazionale è “dipendente” da quella “straniera”.

  

Seguendo la riflessione di Bastiat il lettore è portato a sorridere. Se il cittadino francese che ha venduto vino in Inghilterra e acquistato carbone ci ha guadagnato, com’è possibile che la Francia abbia avuto una qualche perdita? Non è possibile. E per quale motivo dovrebbe invece essere positivo esportare (lavorare per gli altri) invece che importare (far lavorare gli altri per sé)? Anche questo non è per nulla chiaro, come Bastiat ci aiuta a comprendere.

  

L’analisi continua sul medesimo tono, perché dell’Inghilterra egli non ammirava soltanto gli economisti classici, ma – di tutta evidenza – anche un certo humour. E infatti il racconto presenta poi una situazione differente: lo stesso commerciante tenta ancora di fare profitti nei mercati inglesi, ma purtroppo una mareggiata fa colare a picco il bastimento con tutto il suo carico. Stavolta l’uomo d’affari non può essere in alcun modo soddisfatto, ma la contabilità registra un’esportazione di 100 franchi a cui, sul piano delle entrate, non corrisponde nulla. Il commerciante è rovinato, ma in questo caso la bilancia degli interscambi segna un attivo!

  

In questo come in altri scritti dell’autore francese, l’ironia è cruciale sul piano retorico (quale strategia persuasiva), perché egli vuole mostrare la disconnessione tra il senso comune, la ragionevolezza del common sense, e gli esiti di un ragionamento che si vuole scientifico ma che, nei fatti, poggia su pilastri assai fragili. Tra le righe, la pagina obbliga a focalizzare a una serie di questioni. Innanzitutto, essa mostra che l’intero apparato della contabilità si regge su una concezione piuttosto convenzionale del valore: la quale identifica i prezzi emergenti dagli scambi e i valori reali dei beni che sono negoziati. Quando il funzionario delle dogane interpella un esportatore sul valore della merce che si sposta da un paese all’altro, non può certo immaginare che (a rigore) la sua domanda sia senza risposta. Chi esporta riferirà quanto quel carico gli è costato, ma è ovvio che egli ambisca a ricevere ben di più. Qual è il vero valore di quelle mercanzie? E’ da ritenere che un valore in senso oggettivo non esista, poiché ogni bene è diversamente giudicato da ogni individuo. E gli scambi hanno luogo esattamente per questo. Questo dato elementare, che non necessariamente toglie senso alla storia economica e agli strumenti (anche matematici) che utilizziamo per esaminare il passato, dovrebbe però indurci a una maggiore cautela dinanzi a quelle elaborazioni con le quasi cerchiamo di prendere le misure al mondo sociale circostante.

  

C’è poi un’altra e più importante considerazione. Anche se quanti si occupano di economia internazionale tendono a pensare le relazioni economiche in termini di aggregati nazionali, e anche se le analisi di David Ricardo (tuttora fondamentali) presentavano un modello di specializzazione e interazione basato su distinti paesi, qui Bastiat evidenzia che a ben guardare l’economia è fatta di uomini, di imprese e di famiglie, e non certo di stati ed economie nazionali.

  

Questo ci aiuta a capire quanto la logica della bilancia commerciale sia intrinsecamente mercantilista. Essa poggia sulla persuasione che esistano necessariamente interessi comuni a quanti si trovano entro determinati confini, anche se in realtà sappiamo bene che un mio fornitore o cliente “straniero” è per me molto più utile, almeno nel breve termine, di quanto non sia un mio concorrente “nazionale”.

   

Qui Bastiat spinge alle estreme conseguenze la valorizzazione delle importazioni e il discredito sulle importazioni, invitando la classe politica (e ancora sta scherzando, ovviamente) a fare tutto il possibile per impedire che ogni genere di prodotto esca dalla Francia e per negare ai francesi la facoltà di rifornirsi fuori dai confini. E’ chiaro come questo lavorare per gli altri in cambio di nulla – questo esportare senza importare – sia strutturalmente antieconomico, ma un simile schema è proprio la rigorosa conseguenza della logica esposta da quanti si allietano non già di essere produttivi e arricchirsi, ma invece puntano ad avere una bilancia commerciale in attivo.

 

Negli scritti di Bastiat si riconosce una sorta di “prasseologia” ante litteram: ossia, un modo d’argomentare che muove dalla logica classica (nei suoi studi, gli “Analitici” di Aristotele hanno avuto un ruolo non secondario nella sua formazione) e delinea la riflessione sulla produzione e sullo scambio in termini deduttivi, a partire da assiomi elementari e quasi incontrovertibili. Come negli scritti di Ludwig von Mises, insomma, qui si delinea una distinzione assai netta tra la teoria, che può prescindere da ogni forma di empirismo, e la storia, che invece – pur facendo uso per forza di cose di un apparato teorico – ha bisogno di accumulare dati, aggregarli, pesarli.

 

Non è sorprendente che mostrerà sempre una grande ammirazione per Bastiat quel “Mr. Libertarian”, Murray N. Rothbard, che da giovane – alla New York University – aveva creato pure un “circolo Bastiat” e che farà spesso ricorso agli strumenti concettuali utilizzati dal francese. E così egli confuterà il protezionismo domandandosi se per scongiurare una distruzione del “lavoro interno” non fosse il caso per lo stato di New York di isolarsi dal New Jersey, e per New York City di chiudersi alle produzioni del resto dello stato, e per Manhattan da Brooklyn, e per la Sesta Avenue dalla Quinta, e così via.

 

Ancora una volta: una riprova dell’invincibile alleanza tra la logica, l’ironia e un deciso realismo, posto al servizio della verità.

  

*Istituto Bruno Leoni

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