Caso Telecom. Il "golden power" è diventato protezionismo dorato?
Così uno strumento di difesa in casi estremi rischia di essere usato in modo offensivo contro operazioni di mercato
Golden power o protezionismo dorato? Il governo si accorge ora, quattro anni dopo che Telefonica divenne azionista di maggioranza di Telco, allora veicolo di controllo di Telecom Italia, che gli azionisti di riferimento dell’ex monopolista telefonico non sono più italiani e – orrore sovrano! – non bussano più al portone di Palazzo Chigi per chiedere la benedizione preventiva su ogni decisione industriale. Offesa, non senza un certo inspiegabile ritardo, da tale reato di lesa maestà, la nostra classe politica ora pretende all’unisono di comminare multe milionarie (che finiranno a carico anche dei tantissimi piccoli azionisti) per mancata comunicazione preventiva dei nuovi assetti proprietari, minacciando addirittura l’esercizio del golden power. Come un bambino che porta via il pallone perché un ragazzo di un’altra parrocchia s’è unito al gioco senza chiedergli il permesso. Considerata la nazionalità del giocatore-intruso, peraltro, ciò che il ministero dello Sviluppo economico vuol far passare come un distaccato giudizio tecnico col Var, sembra più che altro un fallo di reazione a uno sgarbo subito in trasferta. Il liberismo, si sa, è sacro solo nei mercati altrui.
Il governo ha minacciato misure d'interdizione a Vivendi, che
ha conquistato Telecom come arma negoziale. E' un'interpretazione anacronistica della protezione
degli asset, mentre Francia
e Germania vanno in senso opposto con la volontà di creare
dei "campioni europei". L'Italia però pare non accorgersene
La logica del governo è non solo sbagliata, ma anche fuori tempo massimo. Sbagliata perché manca anche il minimo indizio di quel “grave pregiudizio per gli interessi pubblici” che costituisce la ratio fondamentale per l’uso del golden power. Fuori tempo massimo, perché il vento della politica industriale in Europa è cambiato, e quella che fino a ieri era difesa parrocchiale degli ex campioni nazionali, oggi è diventata corsa a costruire – e a influenzare – i nuovi “campioni europei”. In questo processo sono coinvolti energia e trasporti, telecomunicazioni, media e finanza, oltre alle piattaforme per le tecnologie su difesa e sicurezza. Un’eventuale leggera spruzzata di protezionismo, se sarà necessario in questi tempi post-trumpiani e post-Brexit, verrà semmai applicata ai nuovi player continentali, e non ai singoli attori nazionali. Francia e Germania stanno già ragionando in quell’ottica, come indica l’accordo Siemens-Alstom nel settore ferroviario. L’Italia sembra non averlo ancora capito, nonostante lo smacco politico signorilmente incassato sulla questione Fincantieri-Stx. E ora invoca la clava dei poteri speciali verso i modi, senza dubbio sbrigativi e non sempre rigorosi e trasparenti, della finanza d’oltralpe, che pure in campo bancario non manca di dare il suo piccolo ma significativo contributo a ripulire il cortile di casa dai relitti di una stagione di credito scellerato.
La legge costitutiva del golden power aveva in realtà uno scopo completamente diverso: serviva a superare la precedente logica della “golden share”, che sulle ex aziende pubbliche aveva mantenuto in capo allo Stato poteri di natura autorizzatoria, discrezionale e soggettiva, in contrasto con le norme e la giurisprudenza comunitaria, che la fece oggetto di pesanti procedure d’infrazione.
Il golden power nacque sotto la supervisione di un grande esperto di materia comunitaria come Enzo Moavero Milanesi, nel contesto quintessenzialmente europeista del governo Monti; l’obiettivo della nuova normativa era quello di invertire la filosofia che doveva presidiare gli interessi strategici dello Stato: non un potere preventivo di autorizzazione, ma uno strumento di tipo oppositivo e prescrittivo, e solo come extrema ratio di natura interdittiva, con un ambito di applicazione oggettivo e delimitato. Aveva lo scopo di garantire allo Stato, ex post e non ex ante, un veto nei confronti di operazioni che provochino situazioni eccezionali di “minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti, nonché alla continuità degli approvvigionamenti”, nei settori della Difesa e sicurezza nazionale nonché per gli asset di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni.
La palese sensazione è che oggi il governo, pur sapendo bene che non c’è alcun vero rischio di “grave pregiudizio” per gli interessi pubblici in un settore in costante innovazione come quello delle telecomunicazioni, voglia usare una norma difensiva in logica offensiva, come arma negoziale per ricondurre a più miti consigli l’indocile capitale straniero. Magari forzandolo a un compromesso sulla proprietà delle infrastrutture di rete che, pur non avendo alcuna chiara e reale logica industriale, con lo scorporo farebbe felici in un sol colpo azionisti, analisti finanziari e i sempre numerosi nostalgici della gloriosa Sip statale. E pazienza se a pagare il prezzo di un nuovo monopolio a controllo pubblico, opportunamente caricato di tutto il personale in potenziale esubero, saranno gli utenti e gli altri concorrenti.
Efficienza e innovazione fanno paura alla politica?
Invocare il golden power con questa logica perversa sarebbe solo una doratura superficiale del vecchio protezionismo, incompatibile con il pilastro europeo della libera circolazione dei capitali. Il golden power risuonerebbe come il ronzio di una mosca cocchiera, che si illude di imporre vecchie briglie al cavallo imbizzarrito di un comparto in piena rivoluzione tecnologica a livello globale. Il tutto in un paese dove il capitalismo privato, dal “nocciolino duro” dell’epoca delle privatizzazioni ai capitani senza capitali e non proprio coraggiosi, non ha mai capito la centralità del settore delle Tlc come tecnologia “general purpose” per l’abilitazione dell’innovazione, lo stimolo alla produttività, l’efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione. La politica, invece, lo ha capito molto bene, e ha passato questi anni a far di tutto per evitare che l’innovazione tecnologica erodesse il proprio potere di intermediazione e controllo. Nel dimostrare, invocando il golden power, che il mercato non deve permettersi movimenti su questo terreno senza prima fare atto di sottomissione, ci sta riuscendo un’altra volta.
*Scuola di direzione aziendale dell’Università Bocconi di Milano
tra debito e crescita