Theresa May (foto LaPresse)

Saudi Aramco, il miraggio di May

Gabriele Moccia

Il rinvio della quotazione della compagnia saudita è una iattura per Londra e per la City. C’è lo zampino di Putin

Roma. Alla fine quella che doveva essere la più grande Offerta pubblica d’acquisto della storia finanziaria, si potrebbe risolvere in una transazione tra fondi sovrani. La quotazione in Borsa di Saudi Aramco è, infatti, ferma al palo, rinviata a oltre il 2018, incastrata tra le greppie della politica saudita. Ma la Cina, che molto dipende dal petrolio del Regno, ha formalmente ufficializzato l’intenzione di acquistare direttamente il cinque per cento della compagnia petrolifera saudita.

 

L’offerta, secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, arriverebbe dalle due principali società energetiche statali, Sinopec e Petrochina. Nonostante gli sforzi di Pechino di costituire una riserva nazionale di idrocarburi capace di soddisfare la domanda del sistema produttivo, la capacità estrattiva interna non ha avuto quel boom che ci si aspettava, soprattutto per gli esiti non certo positivo legati allo sviluppo dei giacimenti di tight oil. Oggi questo significa essere ancora più dipendenti dall’import di petrolio e proprio quello saudita è cresciuto, negli ultimi tempi, in maniera vertiginosa. Nonostante la bolla dell’auto elettrica, ad esempio, sulle strade cinesi solo l’anno scorso sono entrate in circolazione quasi 24 milioni di auto a benzina. Ecco perché è fondamentale assicurarsi una fonte stabile di approvvigionamento attraverso una partecipazione diretta in quello che è il vero forziere petrolifero globale, Saudi Aramco per l’appunto.

 

Come riferiscono al Foglio alcune fonti diplomatiche, la mossa cinese sarebbe stata favorita dai recenti colloqui avuti a Mosca tra il presidente russo, Vladimir Putin, e il principe saudita, Bin Salman. Putin avrebbe, infatti, sconsigliato a Salman una completa apertura attraverso le piazze finanziare occidentali. Del resto, l’estrema volatilità del contesto politico saudita e le difficoltà che lo stesso principe riformista Bin Salman sta incontrando nei confronti di altri pezzi di potere della corona, non agevolano i piani per la vendita di Aramco. Lo stesso ambizioso piano economico di Bin Salman, Vision 2030, non può realizzarsi senza i proventi derivanti dalla cessione delle quote della società petrolifera. Non è un caso, infatti, che a causa della crisi dei prezzi del petrolio iniziata nella seconda metà del 2014, l’Arabia Saudita è stata costretta ad intaccare le sue riserve in valuta estera per tentare di contenere il deficit di bilancio che nel 2015 ha raggiunto i 100 miliardi di dollari.

 

La scelta di rinviare la quotazione della compagnia saudita in parte deriva da motivazioni tecniche essenziali. L’apertura della società a investitori internazionali su un listino regolato richiederebbe piena visibilità e trasparenza sugli asset della compagnia petrolifera più grande del mondo, che estrae idrocarburi dal 1933, e quindi la verifica imparziale delle riserve attualmente disponibili, sfidando le stime saudite che parlano di 260 miliardi di barili. Un’altra ragione è che il valore della compagnia potrebbe scendere dai 2 mila miliardi di dollari stimati a un valore prossimo alla metà non appena avviate le contrattazioni. E inoltre l’assetto di governo risulterebbe problematico, con meccanismi di decisione lenti.

 

Tuttavia il regime saudita ha scarse possibilità di sopravvivere con le sue sole forze, provato com’è dal conflitto in Yemen, e ha bisogno di alleati per sostenere la sua economia così dipendente dalla rendita petrolifera. Ma non è solo Riad a rimetterci dalla mancata quotazione del secolo. La mossa cinese ha spiazzato alcuni importanti attori geopolitici che molto avevano puntato sull’operazione. Il primo di tutti è il Regno Unito. Il premier inglese, Theresa May, aveva messo all’opera tutto l’apparato economico-finanziario della City per convincere Riad a scegliere la piazza di Londra come fulcro dell’Ipo in modo da contrastare, con una sola operazione, l’emorragia di capitali in seguito alla Brexit. Attirandosi le critiche dei trader, dei fondi privati e dalla stampa liberal, la May aveva addirittura autorizzato l’organismo di controllo finanziario, la Financial conduct authority (Fca), a costituire una segmento di listino separato solo per le società a controllo statale. Una prerogativa lusinghiera. Le proposte della Fca consentirebbero alle società statali l’esenzione di due criteri: il primo riguarda il modo in cui l’impresa e l’azionista di controllo si monitorano l’uno con l’altro, mentre il secondo consente agli investitori il diritto di voto sulla nomina di amministratori indipendenti. Un vero strappo alla regola alla disciplina della corporate governance inglese. Andrew Bailey, amministratore delegato della Fca, ha giustificato i cambiamenti sulla base del fatto che i proprietari sovrani si comportano in modo diverso rispetto ad altri tipi di società, ma tutti alla City sanno che le modifiche nascono dalla riluttanza manifestata dai vertici della Aramco ad entrare nell’indice azionario Ftse 100, l’indice azionario delle 100 società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange. Ora tutto questo sembra non bastare più e il premier inglese rischia di dover ritrattare quanto affermato durante la campagna della Brexit, ovvero che l’uscita dall’Unione europea avrebbe consentito a Londra una maggiore agilità per attrarre capitali finanziari esteri. May si sbagliava, come vedere un miraggio nel deserto.