Sono le imprese apolidi l'antidoto alla cultura nazionalista
Perché le ragioni dell’economia (e del diritto) sorpassano l’identità nazionale con la globalizzazione dei processi
Di fronte alle contraddizioni del sovranismo, le imprese strappano le proprie radici, piantano le tende altrove, diventano apolidi. La grande fuga delle banche e delle imprese catalane davanti all’indipendentismo naïf dei populisti catalani né è l’esempio più recente: decine di imprese, tra le quali sei su sette delle maggiori quotate all’Ibex35, hanno frettolosamente trasferito le proprie sedi in altre regioni, le banche hanno spostato i conti correnti per timore di una corsa agli sportelli, le piattaforme di turismo online come eDreams hanno cambiato territorio legale per l’incertezza sull’applicazione dei trattati e dei diritti di proprietà. L’impresa diventa apolide sia per difetto di diritto, sia in forza della prassi.
In primo luogo, il diritto, o meglio l’assenza di diritto: l’azienda non ha nazionalità perché non ha cittadinanza, in quanto manca del carattere di soggetto dotato di diritti politici attivi (diritto di voto) o passivi (diritto di essere eletti). A essa, pur dotata di personalità giuridica, non vengono riconosciuti i fondamentali diritti di protezione dall’arbitrio fiscale che hanno costituito una delle origini della teoria costituzionale della scuola anglosassone, sintetizzate nel principio “no taxation without representation”. L’azienda infatti paga le tasse, ma non ha diritti di esprimere una rappresentanza politica che partecipi alla definizione della loro destinazione d'uso.
Se non hanno rappresentanza, né cittadinanza, non si vede perché le imprese debbano essere associate ad una nazionalità, attributo inscindibile del diritto di cittadinanza. La definizione stessa di “azienda multinazionale” è d’altra parte in stridente contrasto logico con il principio di attribuzione di una cittadinanza, sia pure essa prevalente e non esclusiva. Sia definizioni innovative come la “metanational company” di Doz, Santos & Williamson, sia il concetto più diffuso di “azienda globale”, rappresentano infatti altrettante esplicite ammissioni linguistiche in merito all’impossibilità di attribuire in modo rigoroso una specifica nazionalità all'impresa.
La fuga dalla Catalogna delle aziende più importanti è solo l'ultimo esempio della ribellione del capitale alla logica sovranista
La forma giuridica di “Societas Europea”, è un ulteriore esempio di quale palese paradosso sia l’attribuzione di cittadinanza alle imprese. Non essendo l’Unione Europa definibile come “nazione”, le aziende che adottano il suffisso “SE”, con la sua aulica espressione in latino, sono già in un certo senso “apolidi”, salvo godere di un diritto d’asilo automaticamente garantito dagli Stati inseriti nel perimetro di transito del loro crescente nomadismo.
Nel disegno dei legislatori europei al momento dell’introduzione della nuova denominazione di “Societas Europea”, nel 2004, erano dichiarati gli obiettivi di facilitare i processi di fusione e acquisizione all’interno dell’Unione europea, di ridurre sia i costi di agenzia sia i costi di transazione tramite un unico modello manageriale in tutti i paesi europei, e di favorire la possibilità di apertura degli assetti proprietari, rendendo la governance più trasparente per gli investitori internazionali. Ma nella norma si può cogliere anche l’intento di dare alle imprese uno status giuridico simile a quello dei cittadini europei: ovvero libera circolazione e svolgimento di attività economica in tutto il perimetro degli Stati membri, quasi un accordo di Schengen per le imprese. Quindi di assimilare i diritti applicabili a persone giuridiche a quelli concessi a persone fisiche, in una interessante ma discutibile direttrice logica di antropomorfismo giuridico. Infatti le imprese sono organizzazioni, non organismi: sono prive di idee proprie e non godono di uno specifico diritto all’esistenza, salvo le condizioni di Antitrust (applicate per impedire M&A con il dichiarato scopo di tutela della contendibilità di mercato) o quelle, molto più discutibili, di tutela della stabilità di un settore o, peggio, di nazionalità del capitale (si legga “italianità”) di imprese arbitrariamente definite strategiche da politici o da autorità di controllo in preda a deliri di onnipotenza.
E’ infatti illegittimo e scorretto, oltre che gravido di rischi neoprotezionistici, far coincidere la nazionalità di un’azienda con quella di uno o più azionisti di riferimento. Un’azienda non può essere ridotta ad assumere l’identità giuridica nazionale associabile al capitale di rischio che pure ne possieda il legittimo controllo. In una prospettiva orientata agli “stakeholders”, invece che solo agli “shareholders”, non si vede come una specifica territorialità o nazionalità dei alcuni azionisti possa essere trasferita ipso facto all’azienda.
In secondo luogo, la prassi: sono le aziende, non le nazioni, ad essere sempre più protagoniste del globalismo culturale, dove alla predominanza dell’identità nazionale viene progressivamente sostituita la lealtà ai valori aziendali, ormai diventati per necessità interculturali e internazionali. Le specificità a-nazionali si rafforzano se si prende in esame anche l’influenza che l’appartenenza settoriale ha sulla cultura di management: per esempio, il settore petrolifero e quello dell’information technology hanno una connotazione globale che prescinde all’appartenenza nazionale, ed è confermata dalla forte mobilità professionale infra-settoriale.
Che cosa fa un’azienda apolide? Affrancata da un falso dovere di lealtà alla nazione, matrigna ma non madre legittima, e a maggior ragione più indipendente dal potere politico, può assumere parte dei ruoli che tradizionalmente la storia ha riservato agli stati nazionali: l’educazione a valori di tolleranza, il welfare per i suoi membri, finanche la diplomazia, intesa come forma di rappresentanza culturale ed economica verso nuove aree geografiche. Un’impresa apolide generalizza il concetto ricardiano di vantaggio comparativo, per applicarlo non alla nazione ma alle unità organizzative proprie e dei propri partner, laddove venga applicato il modello dei “centri di eccellenza”.
L’impresa apolide non può permettersi il lusso di adottare un’identità nazionale preconfigurata, se non addirittura preconcetta e pregiudiziale, in base a luoghi comuni su presunti caratteri nazionali dominanti: un’impresa, per il fatto di essere tedesca, non può accettare di essere naturalmente percepita come affidabile ma rigida, così come un’impresa italiana non può subire il luogo comune che la vorrebbe creativa ma poco rigorosa.
Essa è quindi chiamata a costruirsi un’identità autonoma e originale, spesso supplendo alla carenza o agli stereotipi delle tradizionali singole identità nazionali. Quanto più è consapevole del suo essere apolide, tanto più un’impresa è incentivata ad evitare discriminazioni nell’accesso a posizioni di responsabilità non solo in termini di nazionalità, ma anche di razza e di religione.
Negli Stati dotati di forte sentimento nazionale, o semplicemente in quelli dominati da protezionismo demografico quando non dal mito della nazionalità come forma di “purezza culturale”, sono richiesti ad un “straniero” molti anni e molte precondizioni per maturare il diritto alla cittadinanza. In un’impresa basta un semplice e immediato contratto privato per prendere a bordo un nuovo assunto di qualsiasi nazionalità con un insieme di garanzie formali, sia pure non necessariamente di opportunità sostanziali, in linea con quanto fruito dagli altri membri dell’organizzazione.
In questo contesto va introdotta la distinzione tra cittadinanza “esterna”, risultato dell’inserimento in un contesto esogeno come quello nazionale, e cittadinanza “interna”, ovvero l’appartenenza all’azienda come sistema autonomo, endogeno, di valori non solo economici ma istituzionali, culturali, societari.
L'Europa è la "nave scuola" del management globalizzato. Le sue imprese sono guidate con identità valoriali altre da quelle nazionali
Quando un’impresa è organizzata sotto forma di network essa è naturalmente predisposta a diventare apolide nel momento in cui si orienta ai mercati internazionali, sia sul lato di input (fattori) sia di output (prodotti e servizi). Da quel momento non solo essa è sempre meno riconducibile ad una collocazione nazionale specifica (la cittadinanza “esterna”), ma anche può facilitare il senso di appartenenza (cittadinanza “interna”) delegando ai diversi nodi della rete i criteri di coordinamento e integrazione organizzativa.
In aggiunta alla configurazione organizzativa a rete, la natura di azienda knowledge-based e l’uso intensivo di Ict (Information & communication technologies), con il relativo portato di standardizzazione, di extraterritorialità, di linguaggio universale della comunicazione umana e organizzativa, costituiscono fattori acceleranti del processo di evoluzione verso la forma di impresa apolide. L’azienda knowledge-based è infatti spinta a trasformare la conoscenza in patrimonio aziendale, formalizzato e riutilizzabile in diversi contesti nazionali, pena la sua inefficienza e non competitività. Essa quindi non può fare distinzioni nazionaliste sul contributo di conoscenza dei suoi membri, come se un brevetto software fatto dal proprio centro di ricerca a Budapest fosse diverso da uno sviluppato dalla sede centrale di Torino. Inoltre l’impresa knowledge-based che opera nel mercato delle tecnologie dell’informazione affronta dinamiche economiche che spingono in maniera irreversibile verso l’internazionalizzazione, sia sul fronte dell’offerta, con l’azione dei grandi player globali dell’Ict, sia sul fronte della domanda, con gli effetti di esternalità positiva caratteristici dell’adozione generalizzata di standard tecnologici. L’azienda network, internazionale, basata su conoscenza e Ict, è infine un’impresa apolide non solo per dinamiche di mercato e politeismo dei valori, ma anche per libertà dai bisogni. La cittadinanza è anche un’opzione economica al mutuo soccorso nazionale, all’accesso al welfare e/o ai trasferimenti dello Stato. Tanto più il portafoglio territoriale di fattori e mercati di destinazione è diversificato, tanto meno l’azienda apolide dipende dalla benevolenza di un singolo stato per il suo sostentamento.
Ed è proprio l’Europa a essere il luogo giusto per la nascita e lo sviluppo di imprese apolidi. Con la sua complessità socio-economica, con la sua frammentazione di mercati e di regole, con i suoi sonnacchiosi tassi di crescita, la vecchia Europa è paradossalmente il terreno ideale per favorire questa mutazione genetica delle imprese. Il microcosmo manageriale europeo replica le difficoltà del macrocosmo globale molto meglio di quanto possa fare il contesto aziendale di un’impresa localizzata negli Stati Uniti. L’Europa è quindi la nuova “nave scuola” del management globale. Il suo relativo nanismo sul fronte geopolitico, la carenza di una chiara identità valoriale, il suo non essere “nazione” ma faticosa sintesi di interessi spesso divergenti, lungi dall’essere una debolezza, le conferisce l’invidiabile privilegio di non alimentare nemici culturali giurati o anche solo inconfessati, come invece avviene nei confronti degli Stati Uniti, proprio a causa dell’imprescindibile connotato nazionale che spesso grava, loro malgrado, sulle imprese di origine statunitense.
Il management apolide, quindi, tanto più quando utilizza pienamente gli strumenti offerti dalle tecnologie dell’informazione, assume la natura di “metalinguaggio”, ovvero di nuova lingua franca dei mercati mondiali: esso è l’indispensabile bagaglio culturale per consentire il nomadismo professionale, l’unico passaporto globale per i nuovi mercenari d’impresa. Nel management contemporaneo, forgiato dall’internazionalizzazione delle supply chain e da sempre più numerosi M&A cross-border, sono le imprese, non le nazioni, a essere protagoniste del globalismo culturale, dove alla predominanza dell’identità nazionale viene progressivamente sostituita la lealtà ai valori aziendali, ormai diventati per necessità interculturali e internazionali.
Le imprese apolidi, tanto più se knowledge-based e operanti nelle tecnologie dell’informazione, si definiscono sempre di più come alternativa culturale agli Stati nazionali, e sono le vere nuove antagoniste, sia pur non dichiarate, al nazionalismo: non per ideologia, ma per la razionale combinazione di interessi imprenditoriali, dinamiche organizzative e fondamentali leggi economiche.
Carlo Alberto Carnevale-Maffè, Bocconi University School of Management