Perché Draghi è diventato un sorprendente alleato dei lavoratori
Il presidente della Bce ha spesso rivendicato che dalla politica monetaria espansiva è derivata la possibilità per i governi di fare riforme che hanno migliorato le condizioni dei lavoratori e di coloro che dal mercato erano esclusi
Roma. Negli ultimi quattro anni la ripresa economica dell’Eurozona ha portato sette milioni di posti di lavoro in più nell’area. Ma nonostante la discesa del tasso di disoccupazione (all’8,9 per cento a settembre dal 9,9 di un anno prima) i salari devono ancora recuperare.
Una delle voci più autorevoli e insistenti affinché ciò avvenga è stata quella del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, il quale ha spesso rivendicato che dalla politica monetaria espansiva, fatta di tassi ai minimi storici e di acquisti di titoli pubblici, per 2.000 miliardi di euro circa, è derivata la possibilità per i governi di fare riforme che hanno migliorato le condizioni dei lavoratori e soprattutto di coloro che dal mercato erano esclusi.
Già il 10 maggio scorso quando alcuni parlamentari di Olanda, paese contrario alle politiche di Draghi, gli hanno chiesto chi ha approfittato del Quantative easing, malignando sui guadagni della grande finanza, ha risposto “i lavoratori, gli imprenditori, abbiamo livelli di disoccupazione che non si vedevano dal 2009”.
C’è una convergenza di interessi tra la Banca centrale europea e i lavoratori in questo periodo. I salari sono “il primo driver dell’inflazione”, ha detto Draghi, che è vicino ma non troppo all’obiettivo statutario del 2 per cento, con una crescita dei prezzi dell’1,4, e una dinamica salariale più vivace aiuterebbe. Draghi è convinto che l’aumento annuo delle retribuzioni supererà l’obiettivo del tasso annuale di inflazione del 2 per cento. “Alla fine il divario del mercato del lavoro si chiuderà, ma bisogna essere pazienti”, ha detto al Parlamento europeo il 25 settembre scorso.
Nella dialettica banca-lavoratori rientra un’interpretazione della stabilità finanziaria più estesa da parte della Bce, come ha detto ieri Ewald Nowotny, governatore della Banca d’Austria. Ossia che il controllo dell’inflazione non è da considerarsi un imperativo rigido, ma che l’azione Bce è de facto estesa a obiettivi strategici di ampia portata, come migliorare il mercato del lavoro, in convergenza con la Fed.
Una parte del problema deriva dal fatto che il recupero di posti di lavoro ha riguardato soprattutto impieghi temporanei con una paga bassa, spesso fuori dalla contrattazione. Un’altra parte deriva invece dalla necessità di portare i salari a essere correlati all’aumento di produttività attraverso il decentramento contrattuale, da negoziare in azienda o a livello territoriale. Il problema complessivo deriva dall’azione dei sindacati. “La pressione dei contratti di lavoro temporanei è tale che i sindacati, nei paesi in cui hanno un ruolo importante, cercano non tanto di aumentare i salari, quanto di garantire la stabilità dei posti di lavoro”, ha detto Draghi sempre a Bruxelles con un riferimento – si può azzardare senza timore – attribuibile all’Italia dove i sindacati operano in quella maniera.
Un atteggiamento che pare in contrasto con la comprensione del fatto che se la concorrenza mondiale rende molto complicato sostenere salari elevati nella manifattura o in altre industrie, allora gli aumenti salariali in questi settori dovranno essere legati più direttamente ai profitti, al servizio clienti o ad altri indicatori di performance dell’impresa come la produttività, a livello aziendale o territoriale a livello di filiera.